Plastica : il grande bluff dei produttori

In questi mesi di seconda ondata Covid arrivano segnalazioni da ogni dove che evidenziano il nuovo rifiuto: le mascherine. Il problema c’è e non va sottovalutato; mi piace pensare che per lo più sembrano dispersioni accidentali: non siamo abituati a manovrarle. Ma se proprio oggi bisogna puntare un dito su un rifiuto che la pandemia ha esaltato non è lì che io lo punterei. Talmente è grave la situazione che bisogna puntare tuti i diti della mano e in tutte le direzioni; compreso verso noi stessi. Parlo di un settore che in altro contesto si direbbe impazzito o fuori controllo: quello degli imballaggi plastici per confezionare alimenti, soprattutto monouso. Complice il vento – si fa per incolpare qualcuno –  i bicchierini del caffè da asporto consumati all’esterno del bar escono sempre dai cestini; le confezioni di frutta – un tempo venduta sfusa nei supermercati  – ora galleggiano nei fiumi come moderne barchette di legno d’un tempo andato; le confezioni svuotate di prosciutto cotto alla prima buca volano via dai camion della raccolta immondizia che non riesce a contenere tutto questo aumento di confezioni plastiche usate 1 volta e che si posizionano sui bordi delle strade se se sono appena in campagna restano colà per settimane; una famiglia di 5 persone che oggi compra soprattutto cibo pre-assemblato, pre-tagliato, pre-confezionato, pre-parato ad hoc per far risparmiare tempo (e denaro al supermercato) prima del Covid buttava via un sacco da 10 lt a settimana di contenitori plastici oggi è a + 50%  sono bastati 8 mesi per questo, moltiplicato per 150 milioni di famiglie nella EU….. Le aziende del settore agroalimentare giurano che non l’hanno fatto apposta: il Covid  è venuto da solo ovviamente ma alla domanda dei supermercati si sono subito adeguati; dicono per proteggere i dipendenti, i cittadini-clienti e secondo me anche i dirigenti, sulla spinta di un desiderio fino a marzo tenuto a freno  a stento: imballare tutto e se possibile nel materiale più a buon mercato, che poi sono le varie plastiche. Esse non sono cattive in sé ma in un mercato non regolamentato e animato dal desiderio di proteggere – a parole – questo Pianeta, hanno trovato la giustificazione del secolo. Chi paga il costo reale dello smaltimento è il cittadino, non solo quello presente ma soprattutto quello del prossimo futuro e non paga l’azienda  che spesso si lava la coscienza con la % da girare ai consorzi di recupero (conai, corepla ecc) che però  poi scaricano sull’utilizzatore finale tra le voci che formano il prezzo, che ha sua volta paga altre tasse a chi raccoglie e altre tasse al sistema commerciale (leggi IVA). E senza pagare ancora l’annunciata tassa sul “consumo”, come se la certificazione del fallimento della raccolta per rigenerare la materia prima oggi ferma al 15%, dicono le statistiche – strombazzata dai vari governi della EU – sia sempre colpa di un altro: il Covid in questo caso. Il resto è bruciato (strada più corta) o sedimentato sui fondali o nella gola delle tartarughe o arpionato dalle sterpaglie lungo gli argini dei fiumi, dei canali, delle strade statali, provinciali, comunali, vicinali (meglio se sterrate). “La riduzione  degli imballaggi plastici – si legge in una nota del supermercato neozelandese foodstuff – non ci sarà fino a quando lo spreco alimentare sarà così’ elevato – non serve cambiare il materiale degli imballaggi, serve che proteggano di più il cibo, servono quantità variabili – https://suppliers.foodstuffs.co.nz. Profeta nel deserto delle nostre antiche civiltà europee. A pag. 22 del rapporto Istat relativo al programma SDGs 2020 (sustainable development goal) per l’agenza 2030 in Italia si legge: “Nell’ambito dell’ultimo vertice dell’HLPF con focus su: “Accelerare l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, è stato presentato e discusso il Rapporto 2019 sullo Sviluppo Sostenibile Globale, che ha sottolineato il forte ritardo nel perseguimento di taluni Obiettivi, segnalando la necessità di interventi correttivi, sia sul piano della tutela dell’ambiente che sociale.  Nel complesso – conclude la presentazione del report –  l’analisi per obbiettivi rafforza l’immagine di una attenuazione generalizzata, nell’ultimo anno, dei miglioramenti verso lo sviluppo sostenibile.” Dati relativi al 2019 quando la pandemia si affacciava solo in Asia.  Cosa ci dobbiamo aspettare per il 2020? La risposta è quanto mai facile e la lascio al gentile lettore pronunciarla. E una dimostrazione della correttezza della valutazione viene anche da un report Mac Arthur: the Global Commitment – il grande impegno – presentando i  dati 2019 dei suoi 500 stackholders tra cui governi, enti e imprese, grandi imprese ecc, “per trasformare la crisi in una ulteriore spinta al raggiungimento degli obiettivi”  si legge nell’introduzione  del rapporto.  Mac Arthur Fundation è attualmente un importante incubatore di best practices basati su analisi scientifiche , Si legge ancora nel rapporto pubblicato un paio di mesi fa. “United by the goal of tackling plastic pollution at its source, have come together behind a common vision of a circular economy for plastics, in which it never becomes waste. “In pratica la visione comune è che la plastica deve smettere di essere  una rifiuto a perdere. E questo è l’obiettivo più ambizioso se pensiamo che le plastiche sono tra gli oggetti dispersi nel Pianeta più numerosi: non biodegradabili, né da risorse rinnovabili e soprattutto non sono  recuperabili se non con uno sforzo globale da parte di tutti gli Stati del Pianeta, che  però non vogliono raccogliere la plastica buttata degli altri, anche dopo che l’hanno magari prodotta nei loro confini e spedita in giro per il mondo con gli alimenti dentro.

I risultati dell’impegno delle compagnie nel farsi monitorare i loro risultati annuali sono in sintesi:

  1. su 100 aziende solo il 17%  ha eliminato imballaggi problematici (per l’ambiente) o non necessari – che vuol dire che ci sono l’83% di aziende che hanno imballaggi impattanti e che non hanno cambiato ancora niente (anche se sono crescita di 1/4 rispetto all’anno precedente). 
  2. praticamente nessuna azienda o quasi (1,9%) si è impegnata a convertire il proprio imballaggio monouso, in un imballaggio riutilizzabile; segno che non è una strada percorribile forse per i costi di ritiro, santificazione? per mancanza di norme sul significato di rifiuto o materia prima seconda? (per esempio le bottiglie di vetro o le cassette di ortaggi e frutta in plastica rigida).
  3. circa l’uso di imballaggi ri-utilizzabili (quindi non monouso), riciclabili (quindi che si recupera la materia prima) o compostabili,  il 65% delle imprese si sta impegnando  a trovare delle soluzioni di questo tipo, che non vuol dire lo abbia fatto veramente o che stia utilizzando % ridicole di materiale rigenerato: perché costa di più e richiede maggiore attenzione nella sua applicazione, quindi costi più alti. Di contro un 35% non ci pensa neppure. Questo però non è un numero piccolo se è vero che il 50% dei 350 milioni  di tonnellate di plastiche prodotte ogni anno sono destinate agli imballaggi, spesso monouso; dire che 50 miliardi  di kg di imballaggi realizzati con plastiche diverse, destinati all’uso quotidiano, saranno bruciati nella migliore delle ipotesi (come i paesi del Nord Europa) o altrimenti si ritroveranno nei posti più remoti del pianeta accumulandosi a quelli degli anni precedenti., non è una bella prospettiva; 1 metro cubo di residui plastici raccolti sulla spiaggia, può pesare 40-50 kg? Quanti ne verrebbero fuori a recuperare anche una sola piccola %.  La sedimentazione dei rifiuti plastici in oceani e terre emerse è un problema che rende meno evidente il loro impatto. Questo è un  problema che non viene quasi mai associato al consumo annuale  degli imballaggi. Neppure alle leggi a quanto sembra. La mancanza di norme  nella EU che rendono obbligatorie l’identificazione della tipologia delle varie plastiche (il triangolo che identifica il tipo di plastica se riciclabile)  è una lacuna pericolosa. Quella della identificabilità delle varie plastiche rende la rigenerazione difficile (sorting), il ciclo caotico e spesso degradante il valore originario del materiale originario, in molti dei casi. Fa verniciare di verde-speranza le aziende produttrici di agroalimentare che ordinano gli imballaggi alle imprese, le quali producono perché qualcuno le ordina e qualche altro le vuole pagare poco, al termine della catena di valore. In questo la responsabilità delle grandi catene di distribuzione come i supermercati è enorme. Questi soprattutto nei Paesi avanzati e progressisti, sono chiamati spesso dagli stessi clienti,  a risolvere un problema che  per la norma non esiste:rendere riconoscibile le materie prime dell’imballaggio o renderle omogenee per settore o tipologia merceologica; lo fanno, quando possibile, soprattutto sui prodotti a marchio proprio forse per catturare l’attenzione dei clienti più scrupolosi, che non sempre sono i più giovani ma semmai proprio i più anziani e soprattutto nelle grandi città. Il cammino volontario non basta purtroppo, questa è la conclusione: occorrono norme stringenti e chiare e che obblighino alla sterzata  gli artefici dell società cioè tutti cittadini imprese e governanti, come auspicato da un numero crescente di giovani che il Pianeta lo stanno ereditando piuttosto marcio. Il periodo 2020/Covid sta sollevando un coperchio di ipocrisie che fanno non meno male della stessa pandemia purtroppo: dalla tassazione mancata delle tasse sugli imballaggi plastici per ridurne la quantità, ad un aumento vertiginoso del loro consumo.

Scarica il Global Commitment Progress Report 2020

Marco Benedetti
m.benedetticonsulting@gmail.com

Redazione

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