Dossier imballaggi monouso: l’impossibile scelta del riciclo

Si conclude con questo terzo articolo il trittico sul tema imballaggi di Marco Benedetti, Vice Presidente di Chimica Verde Bionet. Tra indicazioni assenti, false o ambigue, simboli fai da te, domande  dei cittadini senza risposta dalle istituzioni: il caos delle indicazioni “volontarie” per la EU su cosa è fatto imballaggio e della legge italiana su dove va conferito lasciata a imprese e amministrazione comunali.

Il presente articolo è in realtà un commento fotografico: immagini di imballaggi alimentari e non che tutti possiamo catturare, toccare su uno scaffale, portare casa e a cui non prestiamo quella attenzione che meritano per come sono, per cosa comunicano e per cosa servono. Gli imballaggi hanno una responsabilità enorme per conservare cibi e beni che riteniamo utili per il nostro quotidiano. Ci  consentono di averli a portata di mano, di scegliere, di apprezzarne il contenuto e la sua utilità. Ma mentre il contenuto lo usiamo, l’imballaggio quasi sempre non lo usiamo due volte, spesso non è proprio studiato per questa funzione; lo conferiamo in un cassonetto di cui si devono prendere cura delle persone come noi, delle aziende in cui lavoriamo e che devono valorizzarli dopo essere diventati rifiuti. Già l’idea che gli imballaggi una volta consumato il contenuto si de-valorizzino riducendosi da frutto dell’ingegno umano, a rifiuto spesso maleodorante, altre volte abbandonato  fino ad ritornarci come disastro ambientale, insostenibile per il futuro di noi stessi che l’abbiamo abbandonato.  Si butta il 95% del valore che abbiamo pagato e a questo aggiungere altro denaro per smaltirlo e quando poi disperso in mare o nel terreno spendere soldi per recuperarlo e ri-ributtarlo per re-iniziare il ciclo di smaltimento, spesso inefficiente come sappiamo e abbiamo visto ormai tutti. Un gigantesco costo che si potrebbe evitare se le cose fossero chiare a partire dalla risposta certa al semplice: e ora dove lo butto?  Il concetto di “contenuto prevalente”, usato dagli addetti ai lavori per indicare il materiale con maggior peso nell’imballaggio multi-materiale è forse utile per gli operatori se indicato ma non ne indica il valore o l’impatto ambientale (GWP) e comunque, come nel caso dei multistrato, non sempre separabile dal resto. Per i cittadini infine può trarre in inganno come nei casi illustrati di seguito.  

Ecco di seguito un “piccolo” campionario fotografico di prodotti presenti sugli scaffali di tutta Italia e di come le imprese manifatturiere ci vogliono comunicare circa il  loro imballaggio quando cercano o non cercano affatto – perchè “azione volontaria” dice la EU – di comunicarci di cosa è composto e quindi fornire a noi consumatori, l’indicazione chiara di dove lo “dovremmo” correttamente buttare per non riempire il Pianeta di spazzatura di cui nessuno poi se ne vuole assumere la responsabilità ( e il costo per ripulire).

Le fotografie sono state scattate nei supermercati COOP, ESSELUNGA, NATURASÍ di Prato in Toscana.

1 – Quando l’azienda che usa l’imballaggio non sa di cosa esso sia fatto, evidentemente.

 La Bistefani scrive di conservare i suoi Krumiri  nella carta. Ma allora come mai sotto il velo di carta c’è un film di plastica a contatto con i biscotti? La carta assorbe l’umidità e quindi uno strato protettivo in polietilene a contatto con il cibo è opportuno per restare su uno scaffale a lungo senza  degradarsi.  Potrebbe essere  film in bioplastica che allora sarebbe tutto da gettare nell’organico (dipende dai Comuni) ma anche nella carta stessa (perchè verrebbe separato e potrebbe diventare compost)…La comunicazione al consumatore non è corretta; errore di distrazione? di comunicazione (scrivere solo carta fa più naturale) ? Poiché non c’è obbligo di indicazione, resta il dubbio se non sarebbe stato meglio non scriverci niente piuttosto di scrivere una bugia.

2. Quando per comunicare uno stesso prodotto e lo stesso tipo di imballaggio, vince SOLO la fantasia

Se il caffé a Marchio Esselunga parla di imballo da raccolta Indifferenziata – correttamente – ma non di che tipo di materiale si tratta – Lavazza dice che è a “prevalenza” cioè c’è più plastica che altro e “l’altro”  lo indica cripticamente con la C ( ndr: di Carta)? Anche per Bei&Nannini il pacchetto è a prevalenza plastica ma aggiunge più correttamente  la sigla PAP, che nella simbologia EU identifica “Paper” carta/cartone – in pratica un poli-accoppiato di almeno 3 strati necessari per preservare le proprietà organolettiche del contenuto sensibile sia alla luce che alla umidità ). C o PAP sono 3 strati da buttare dove: carta o plastica o indifferenziata? Caffé Verniano sembra ammettere di non capirci molto e nell’incertezza taglia fuori tutte le info; come a dire: ci si concentri sul contenuto, ovvia!

3. Quando l’etichetta comunica un valore e l’altra e  solo il prezzo

L’uva Orcheda comunica che  l’imballo è  all’ 80% costituito da polietilene tereftalato (PET) da rigenerato ( ma da 0% a 100%: quanto rigenerato c’è in quel PET?). Anche il film stretch rigenerato di PET? In genere è polietilene LDPE. Di cosa sia fatto il restante 20% non è dunque dato di saperlo –  ma poi ci raccomanda correttamente di togliere l’etichetta che essendo di carta renderebbe il rifiuto da plastico a indifferenziato (tassato assai di più). Cosa questa su cui Esselunga soprassiede a piè pari:  come dire “scegli tu cliente”. Ma carta e plastica rendono l’imballaggio  da indiffernziato  (a meno che non stacchi tu cliente l’etichetta, se ti riesce). Almeno però non da informazioni che lasciano dubbi sulla effettiva correttezza della comunicazione. Non dire spesso è meglio che dire a metà o all’80%?

4 . La pasta di grano italiano è top in sostenibilità e qualità ma l’imballo è top in ambiguità

Tre grandi marchi a confronto. Non uno di loro spiega correttamente di cosa è fatto il suo bel contenitore. Barilla dice che è in carta… ma la finestra trasparente è anche quella in carta? Strano: sembra plastica! La Rummo lancia  sul mercato la sua pasta di grano italiano e per far capire la naturalità la mette in  un imballaggio che è misto cioè carta fuori, a contatto con i polpastrelli ( più eco, più naturale?) ma dentro un bel velo di plastica anonima. E questo imballaggio finisce il suo ciclo vitale non  nella carta né nella plastica…ma nell’inceneritore o in discarica…..come se non ci fossero alternative meno impattanti e altrettanto utili a protegge il cibo dentro….come quella di DELVERDE che è sí, tutta plastica  ma al fine, questo lo capisce anche un bambino, può gettarlo nel contenitore di recupero plastiche, verso la rigenerazione e oltre (forse).

5.Se il contenuto BIO è trasparente e virtuoso coi clienti mica è importante essere coerenti anche con il contenitore?

Mentre il grande brand come Rana si impegna a spiegarti dove gettare il suo rifiuto, il marchio specializzato regionale Martimucci ci fa capire che il dentro è veramente biologico, rispettoso del Pianeta, privo di pesticidi ecc ecc; ma di cosa è fatto l’esterno bisogna  invece però intuirlo (forse annusando?), dimostrando così scarsa sensibilità effettiva al tema ambiente.

6. Quando il biologico strizza l’occhio al commercio di massa e tollera la comunicazione ambigua con effetto dubbio sul rispetto del consumatore (ma sempre dentro i termini che la legge consente)

Imballaggio simile (in tetrapack™) per proteggere il contenuto sensibile a  calore, luce e umidità esterna.  Anche il colore tipo “carta rustica” perchè tutti noi abbiamo ancora l’imprinting legno=natura. Ma Mila indica chiaramente senza sottintesi che l’imballaggio così come è è un multimateriale (il riferimento all’ambiente è forse più legato alla corretta preservazione del contenuto? In questo caso anche all’impegno del fornitore dell’imballaggio sui metodi di recupero e rigenerazione dei suoi materiali?). Va gettato nella indifferenziata? In realtà non è scontato perchè dipende dal metodo di raccolta adottato nel proprio Comune. Ma l‘altro prodotto IsolaBio presente sugli scaffali dei supermercati Naturasì  dove il biologico è il must, circa l’imballaggio ci evidenzia che l’80% del contenitore è da fonti rinnovabili (cioè la carta che proviene da alberi che si trovano nelle foreste – però non è chiaro se foreste certificate FSC o PEFC e non primarie). Ma non si prende la cura di spiegarci da dove deriva l’altro 20% che, se in tetrapak™ è polietilene (in genere di origine petrolifera ma potrebbe essere anche di origine vegetale, almeno in parte (per es. il tappo) ma contiene anche un leggerissimo foglio di alluminio, un metallo che quello che rende questa confezione assai efficiente (per ridurre lo spreco di cibo). Perché dunque non essere trasparenti fino in fondo? Il BIO consumatore forse non avrebbe apprezzato, non avrebbe capito, non si sarebbe documentato? Avrebbe rifiutato l’acquisto? Il consumatore che cerca il bio – che paga di più in genere – non è forse un consumatore attento? L’ambiguità è la forma peggiore di comunicazione alla lunga.

 7. Quando passando il famoso marchio ti porta sguardo e mente sul valore del suo marchio e….lascia a te, consumatore, la responsabilità di essere persona civile e soprattutto di perdere tempo a capire cosa hai in mano

Esselunga, nel suo prodotto a marchio, ci fa correttamente notare che il contenitore della schiuma da barba per uomo è composto da ben 3 elementi : la bombola, il tappo e l’erogatore: 2 plastiche e 1 metallo. Avrebbe potuto indicarci anche la sigla delle plastiche perchè se menzionate significa che sono forse diverse? Ma tant’è che ci sottolinea che i 3 componenti si possono separare e che tocca a te consumatore assumerti la responsabilità di farlo. Gli altri 2, marchio commerciale Nivea che sembra prodotto all’estero e marchio Noxema  prodotto in Italia indicano solo 1 componente: il metallo – ALU (aluminio?) E l’altro FE (ferro?); Nivea scrive il metallo come sigla, neppure lo pone in evidenza che si tratta del materiale del contenitore, mescolato tra molte altre informazioni, mentre Noxema ci fa vedere il triangolo e ci mette dentro il numero 40. 40 di cosa? Di metallo? E l’altro 60 per arrivare a 100 cioè al tutto, cosa è? Forse sono codici criptati per addetti ai lavori, che sicuramente avranno il tempo di separare mentre il gli imballaggi sono selezionati uno ad uno? maddaii!

 8.Quando gli imballaggi multistrato non sono una dannazione se la priorità del contenitore è proteggere il contenuto e ridurre lo spreco alimentare ma la personalizzazione del modo di raccontarlo a volte sembra una barzelletta

Tre esempi di confezione multistrato; tutti simili come tecnica di costruzione e composizione e tutti descritti in modo “personalizzato”. A sinistra il tetrapak è sì contenitore misto, ma se per il “dove si butta” dipende dal Comune e il cittadino così come  il turista di passaggio, dovrebbe telefonare al Comune per farselo spiegare(…vedi mai), viene evidenziata solo la presenza di carta da foreste coltivate FSC. Bene, ma il resto? La plastica? L’alluminio?  (che è una delle estrazioni minerarie più complesse e inquinanti) visto, tra l’altro, che come scoperto sopra, costituiscono anche il 20% di questo multistrato?. Nella foto centrale è un prodotto a marchio del supermercato ma ci indica ancora una volta e in una forma diversa che c’è carta indicando sia la C di carta che per evitare errori anche la PAP di paper (magari chi compre è uno straniero). Il resto è ancora come se non esistesse. La confezione di destra ci indica “cosa è” in un posto difficile da trovare e ci scrive la sigla CA (come carta? forse, boh!). Ma non era meglio evitare questa finta comunicazione buonista? La legge lo permette.

9. quando la legge permette di NON comunicarci con chiarezza cosa buttiamo, dobbiamo essere tecnici per capirlo salvo poi indignarci con chi le leggi le dovrebbe fare, quando ce lo ritroviamo spiaggiato o trovato nello stomaco di un cetaceo morto

3 esempi di bottiglie di olio di semi con 3  sigle identificatrici diverse. Vorrei vedere il tecnico addetto alla selezione dei rifiuti che per ogni contenitore deve trovare la sigla (quando c’è,  essendo volontaria). Negli impianti più avanzati ci sono dei rilevatori che leggono la rifrazione della luce quando attraversa l’imballaggio e da questa si capisce che tipo di materiale è. Il PET è il più prezioso ma anche quello che ha una impronta ambientale (GWP) da 2 a 3 volte altri materiali plastici come polietilene e polipropilene.

10 Quando il contenitore vale più del contenuto e l’impresa deve trovare argomenti per convincerti all’acquisto di questo e non del bene contenuto

Acqua bene comune, anzi no: bene naturale intrappolato in una confezione innaturale diventata uno dei problemi più impattanti dell’Umanità. In Italia si consumano da 8 a 12 miliardi di bottiglie l’anno, pur disponendo din una quantità di fonti come nessun altro Paese in Europa. E la battaglia per le acque minerali è diventato una battaglia per chi riesce a convincere il consumatore di essere più Green (che vuol dire “verde” ma non vuole indicare affatto iil suo grado di sostenibilità né tanto meno è protetta da una norma che spiega che è ambientalmente compatibile  rispetto a cosa). Cosi si arrivano a coniare termini che sono un doppione nel suo significa come ECOGREEN – verde ecologico perchè viene utilizzato un PET che arriva da bottiglie buttate dopo averle vuotate una volta e che dice che è più sostenibili di prima, ma non indica a quanto era l’asticella prima e quanto l’asticella della sostenibilità  è stata posta adesso. Ovviamente con il consenso della Stato e della EU e con il consento dei consumatori che continuano a acquistare un bene che prima di essere imbottigliato era già suo per legge (essendo tutto ciò che sta sotto e dentro terra, un bene comune, dello Stato cioè di tutti)

CONCLUSIONE. La classifica del virtuosismo dei contenitori.

Chi in questo tempo buio comunica con più trasparenza e rispetto del consumatore sono i prodotti a marchio del Supermercato; una attenzione forse imperfetta ma degna di nota e di incoraggiamento almeno per il tema smaltimento imballaggi; quindi un 7 se lo meritano. Un 5 meno meno, alle aziende che producono i grandi brand italiani: esaltano iil contenuto ma non la raccontano giusta su come valorizzano questo bene grazie al lavoro e alla scelta  dell’imballaggio che resta non una vetrina di immagini ma un materiale tecnico ad elevato valore aggiunto perchè permette di conservare io cibo per non sprecarlo (almeno fino a quando non arriva nel frigo della famiglia e viene aperto); stesso 5 meno meno per solidarietà alle associazioni dei produttori che non forniscono agli associati regole che in mancanza di una norma certa valida per tutti, forniscano almeno un messaggio coerente, nei termini e nella grafica ai propri clienti. Infine un 2 alle multinazionali che potrebbero guidare i consumatori verso un pianeta più sostenibile e invece se le giocano solo sull’esaltazione del proprio brand.

Marco Benedetti
Vice Presidente Chimica Verde Bionet
marco.benedetti@greenevo.it

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