Case green, futuro industriale e difesa del modello sociale
Case Green. Un interessante articolo di approfondimento del Vicepresidente del Kyoto Club Francesco Ferrante.
“Una direttiva bellissima. Chi paga?” Il commento sarcastico del ministro Giorgetti. Così vuole giustificare il voto contrario del suo Governo (unico insieme all’Ungheria di Orban) al Consiglio UE che ha approvato in via definitiva la direttiva “case green”.
Prediamolo sul serio. “Una direttiva bellissima”, sì perché giustamente indica la strada per rendere il patrimonio edilizio dell’intero continente più efficiente, più confortevole e più moderno. “Indispensabile” nel quadro del Green Deal che si propone di far diventare l’Europa a emissioni zero entro il 2050. Una scelta fatta nel 2019 per contrastare la crisi climatica ma anche e soprattutto quale politica industriale per difendere la leadership europea in alcuni settori dell’economia mondiale e per avere più strumenti nella competizione globale.
“Opportuna” perché, nella migliore tradizione europea, guarda al benessere dei suoi cittadini. “Giusta” perché impone ai suoi Stati membri di iniziare questo ammodernamento proprio dalle abitazioni meno efficienti (quelle in classe F e G) in cui risiedono in gran parte i cittadini meno abbienti. Salire almeno di due classi energetiche consente un risparmio del 40% sulla bolletta, pari a un risparmio medio annuo di di circa 1000 euro ai costi del 2022. Ed una casa ristrutturata inoltre vale mediamente oltre il 40% in più di una da ristrutturare (dati del think tank ECCO).
Case energivore
Un terzo delle emissioni in Europa viene dal patrimonio edilizio, particolarmente vetusto e “colabrodo” in Italia dove rappresenta la principale fonte di consumo di gas e delle emissioni di CO2 nelle aree urbane. Era quindi indispensabile porsi obiettivi di riduzione dei consumi. E contemporaneamente stimolare e promuovere l’innovazione in edilizia: da qui l’indicazione che tutti i nuovi edifici entro il 2030 dovranno essere a emissioni zero.
Si può fare, spingendo sull’elettrificazione innanzitutto e ricorrendo quindi alle pompe di calore per il riscaldamento e il raffrescamento. Per questo nella Direttiva è previsto il phase out delle caldaie a gas che non si potranno più montare dal 2040. E che non potranno godere più di alcun incentivo già dall’anno prossimo.
Inoltre, grazie all’innovazione tecnologica che ha fatto giganteschi passi avanti anche nell’edilizia, si possono utilizzare già oggi adeguate tecniche di costruzione, ricorrere al fotovoltaico e alla geotermia a bassa entalpia permettendoci di costruire edifici che non solo non emettono gas climalteranti, ma che possono addirittura essere “produttori” di energia pulita.
Qui forse la direttiva avrebbe potuto essere più completa se avesse dato indicazioni sui materiali da utilizzare spingendo sull’eliminazione di quelli di origine fossile e promuovendo quelli “naturali” per i quali si stanno osservando miglioramenti straordinari nelle prestazioni e nell’affidabilità in questi ultimi anni.
Nel corso del lungo iter di approvazione si è scelto di non imporre target ambiziosi su ogni singolo edificio, come era previsto nella prima proposta della Commissione, ma piuttosto di lasciare liberi gli Stati membri (che avranno due anni di tempo per approvare la direttiva) di scegliere le forme con cui raggiungere gli obiettivi complessivi che la direttiva fissa. Riduzione del 16% del consumo di energia dell’intero patrimonio edilizio entro il 2030, del 20-22% entro il 2035, per arrivare a emissioni zero nel 2050.
Una scelta condivisibile che tiene conto delle diversità di ciascun paese anche dal punto di vista della proprietà della case. In Italia ad esempio c’è un’elevata percentuale di cittadini che vivono in casa di proprietà (circa l’80%) e invece in molti altri paesi la proprietà di molti edifici è di grandi fondi immobiliari.
Ma è una scelta che responsabilizza i singoli Paesi membri e, data la reazione del nostro Governo, non lascia affatto tranquilli sia per i tempi di recepimento (non sarebbe purtroppo la prima volta che il nostro Paese non si adegua per tempo alla legge europea), sia per le modalità con cui si vorrà implementare la Direttiva nell’Italia del Governo Meloni.
E qui arriviamo al “chi paga?” giorgettiano. Il Ministro ha voluto far riferimento al “buco nero” che secondo lui – e a dire il vero secondo tutta la narrazione mainstream – avrebbe rappresentato il Superbonus per i conti pubblici del nostro Paese.
Non è questa la sede per tornare un’ennesima volta sulle vere e proprie fake news che avvelenano il dibattito pubblico su questo tema. Vanno però ricordati alcuni punti essenziali per fare chiarezza, non commettere errori, e per indicare quali scelte sarebbe opportuno mettere in campo per implementare invece la “bellissima Direttiva”.
Tre errori da evitare
Primo errore da non ripetere è il “bonus facciate”. Quello sì fonte di innumerevoli frodi. Perché non era previsto alcun controllo e asseverazione da parte di tecnici qualificati come invece avveniva per il Superbonus. E perché non ha comportato alcun beneficio in termini di miglioramento dell’efficienza energetica.
Secondo errore da evitare sono provvedimenti erga omnes che comprendano le seconde case (come nel Superbonus). Si favorirebbero i più ricchi e non si avrebbero rilevanti benefici nella riduzione reale dei consumi globali.
Terzo errore, più facile da evitare perché espressamente vietato dalla Direttiva, persistere nella insostenibile scelta di incentivare le caldaie a gas.
Più in generale sarebbe finalmente opportuno che quando si fanno i conti il MEF oltre a calcolare le mancate entrate dovute alle detrazioni (e alle conseguenti cessioni di credito e sconti in fattura), volesse finalmente conteggiare l’aumento delle entrate (Irpef, Irap, IVA) e la fuoriuscita dal “nero”, di cui i conti dello Stato hanno beneficiato nella stagione degli incentivi.
Grazie a quegli incentivi peraltro, oltre alla crescita del PIL i cui benefici tutti i Governi, compreso quello attuale, hanno potuto godere, secondo i dati del CRESME in edilizia ci sono stati 1,9 milioni di occupati nel triennio 2020-2022 (che diventano 2,9 milioni se si calcolano anche gli indiretti).Quasi tre volte la media del periodo 2011-2019.
E’ vero che la stessa Unione europea stima che ci vogliono tanti soldi (275 miliardi nel continente all’anno da qui al 2030) ma, messe da parte strumentalizzazioni e pregiudizi, si possono studiare adeguati meccanismi finanziari basati sull’ingente risparmio che negli anni si avrebbe sulle bollette delle case ristrutturate per finanziare gli interventi necessari. E – anche se la Direttiva non prevede finanziamenti ad hoc – si possono utilizzare molti fondi “europei”.
Da una revisione del PNRR (ancora possibile) che utilizzi una parte di quelle ingenti risorse su questa misura, ai Fondi di Coesione (quasi 80 miliardi sino al 2027) che spesso restano inutilizzati o si disperdono in mille rivoli, al fondo sociale per il clima (65 miliardi europei per i Piani nazionali di ristrutturazione degli edifici), ai finanziamenti della BEI che ha annunciato che investirà 45 miliardi aggiuntivi da qui al 2027. Tenendo sempre presente che il vituperato Superbonus, che ha consentito un risparmio del 5%, ci ha portato a raggiungere già oggi un terzo dell’obiettivo fissato dalla UE al 2030. Paradossi.
Più in generale l’ostilità della destra (ma anche di larga parte dell’intera classe dirigente di questo Paese) al Green Deal europeo (di cui questa direttiva è parte essenziale) si basa su una narrazione per cui sembra quasi che nel 2019 quella scelta politica fosse dettata da una qualche Greta e che a Bruxelles abbia preso il potere una banda di fanatici ambientalisti incuranti delle “drammatiche” ricadute sull’economia reale di quelle scelte “ideologiche”.
Facendo finta di ignorare che invece chi lo presentò allora era la stessa Von Der Leyen con la quale vorrebbero allearsi adesso e che quella politica era e continua ad essere l’unica che possa assicurare un futuro industriale al Vecchio Continente che deve misurarsi con le potenze emergenti e non più solo con il suo alleato oltre oceano.
Se non puntiamo su innovazione e know how tecnologico (che fortunatamente ci aiutano anche nella lotta contro la crisi climatica) non ci saranno politiche di dazi sufficienti ad evitare che verremo spazzati via da economie più giovani e aggressive. Allora sì che sarà un “bagno di sangue “ che colpirà come sempre prima i più poveri. Altro che transizione ecologica, che invece è e resta unico strumento utile in questo nostro tempo per difendere il modello sociale europeo.
Francesco Ferrante Vicepresidente del Kyoto Club
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Foto di Mischa Frank su Unsplash