Vestirsi consapevolmente oggi per aiutare domani il recupero di preziose materie tessili

Il problema è di difficile soluzione. L’unica cosa che può innescare un meccanismo positivo per ridurre gli sprechi di materie prime nella più diffusa industria del pianeta, il tessile, è la presa di coscienza del cittadino che effettua una scelta consapevole.

Secondo il report ETC-CE 2023/5 sul ruolo delle fibre tessili in economia circolare e sostenibilità – considerando il settore tessile nel suo complesso dalla fibra al capo finito, componenti arredo e monouso – fino all’80% dei processi influisce su i cambiamenti climatici. Tra i quali il consumo energetico, di acque, di materie chimiche e la perdita di materia prima nelle varie fasi del ciclo industriale tessile >20/30%.

E se è sicuro che non sarà possibile diffondere facilmente buone pratiche nella gestione dei nostri rifiuti tessili in molte aree del Pianeta, per ragioni non solo politiche, non si giustifica la generale attuale indolenza nel comprare materiali tessili, abiti, scarpe, borse, divani ecc, partendo dall’analisi della etichetta e non solo dall’aspetto. Sappiamo tutti del potenziale green washing dell’industria quando non normata.

Anche la Commissione Europea nel marzo 2023, ad 1 anno dalla pubblicazione della proposta al Parlamento EU sulla strategia del tessile, nel documento “consumer protection enabling sustainable choices and ending greenwashing” ha chiesto al Parlamento Europeo l’adozione di norme specifiche contro l’uso di termini devianti quando non comprovati da certificazioni di terzi, riportando un’indicazione chiara del suo possibile costo per l’ambiente (foot print), possibilità di una seconda vita e quindi del suo end-life. Riuso, riciclo, rigenerazione devono essere il mantra.

La strada l’ha individuata e tracciata la EU con una strategia del tessile (marzo 2022) che indica anche impegni benemeriti (ma forse di difficile realizzazione se resterà solo un’indicazione e non si tramuterà in leggi chiare e applicabili) per un settore che si collega ad un bene essenziale per l’essere umano: vestirsi. Vestirsi che però coincide anche con il modo di essere dell’individuo: aspetto, bellezza, praticità, identità, imitazione.

L’imbottitura termoisolante di un capo moda in fibra pet (sintetico non biodegradabile) può essere oggi anche di seta (naturale e biodegradabile). Con performance assai migliori, tra l’altro. Ma un capo di abbigliamento può essere anche realizzato con strati di mescole di fibre diverse tra loro per natura, fine vita e prestazioni.

Sarà il grande rebus da risolvere nei prossimi anni e pochi avranno l’ardire di investire in ricerca di nuova applicazioni per questi incroci di fibre. E oggi, occorre preparare il domani eliminando l’inutile per il bene di tutti. Quando vestirsi è più un mezzo di comunicazione del proprio io, cambiarne le abitudini e gli orizzonti, richiederà tempo e soprattutto molti investimenti in comunicazione. Il fine vita del capo di abbigliamento è importante quanto l’origine e il tipo di materie prime impiegate. Da oggi deve però coincidere con un design pianeta-centrico, etico, sostenibile, non solo uomo-centrico. In altre parole occorre vestirsi di bellezza ma in questa triplice funzione: funzionalità, estetica, consapevolezza.

Cosa dunque deve interessare in un capo di abbigliamento?

E’ auspicabile avere intanto una chiara idea della origine delle fibre. Nell’era dei social aperti a tutti, le leggende metropolitane in rete sono le più disparate e spesso in contraddizione, se non false o mitizzate solo pro-conto in banca.

Partiamo dunque dalle fibre per capirne di più – vedi schema seguente

Purtroppo oggi chi comunica di più nel settore tessile – i brands e i produttori di fibra – non è detto lo faccia per il bene comune. Spesso cencio dice male di straccio, si dice in Toscana. Così avviene che, per esempio, i sostenitori delle fibre inorganiche, come il poliestere tereftalato (PET), spesso evidenziano l’impatto delle altre fibre a partire da quelle naturali coltivate come il cotone, luoghi comuni (circa 12.000 litri di acqua consumata  per tessuto prodotto) o per la lana produzione di gas metano dagli allevamenti di pecore (che è cosa  vera). Ma chi accusa gli altri, dice spesso mezze verità sulle proprie e non cita le fonti. E il cliente non ha la voglia/competenza di approfondire.

tessili

La fibra sintetica per esempio non si pensa mai sia legata al consumo di acqua perché legata all’estrazione del petrolio. Ma per produrre 1 kg di fibra poliestere si inquinano 72.000 litri di acqua nella sola raffinazione del petrolio.

Le eco-alternative poi ci sarebbero anche. Al cotone industriale, spesso da Ogm, si può preferire la produzione di cotone biologico (certificato), che costa di più perché ci si prende cura non solo dei campi ma di chi ci sta intorno. Cosa che forse incide in un capo max per il 10%, mentre il resto del prezzo di vendita è speculazione commerciale. Se fortemente vuoi il biologico, sei disposto a pagarlo di più e il marketing lo sa.

Così come chi sostiene sui social per es. che anche la fibra artificiale di viscosa ha forte impatto perché richiede il taglio di alberi (che è anche vero), ma sempre da foreste coltivate certificate FSC o PEFC. Come quelle di pino del nord Europa, eucalipto del Sud Africa o bambù cinese. Un albero produce cellulosa come molti mt2 di campi coltivati di canapa per svariati anni per esempio. Ma anche più ossigeno nel suo ciclo vitale. Caso mai si dovrebbero contestare le estensioni boschive a monocoltura per la biodiversità, che è il caso anche delle palme da olio. Ma molte foreste sono piantate soprattutto per produrre polpa di cellulosa per far carta/catone piuttosto che fibre tessili, che è sprecata assai di più. Si pensi agli imballaggi in cartone che trasportano prodotti a sua volta già imballati, nelle consegne a domicilio.

Se è vero che ricerche come quelle di Textile Exchange (www.textileexchange.org) o MacArthur Fundation (www.macfound.org) stimano un aumento di fabbisogno annuale di materia prima tessile di un ulteriore 30% entro il 2030 (145 miliardi di kg), è altrettanto vero che le risorse planetarie di aree agricole sono in esaurimento. E non dovrebbero più espandersi per far posto a campi di cotone o  per piantate di alberi, tagliando ulteriori foreste primarie, con ben note catastrofiche previsioni.

Per questo non è più rimandabile il recupero e reimpiego delle fibre già impiegate nei prodotti tessili presenti nel mercato, sugli scaffali, nelle nostre case e uffici. La sostenibilità non è però solo questo. E’ piuttosto un numero calcolato scientificamente (LCA – Analisi del ciclo di vita) di cui, chi acquista, dovrebbe disporre, ma non è mai riportato. Basterebbe per altro adottare simbologie semplificate come quelle per esempio degli elettrodomestici: da rosso a verde. Ma, come detto, spesso la priorità di un capo di abbigliamento non è l’efficacia ma l’identità.

Dunque si deve partire da un nuovo paradigma nella scelta dei prodotti che sia più critica, ovvero consapevole. E per esserlo occorre avere indicazioni in chiaro ben visibili sui prodotti.  Su un totale di 61 miliardi di kg di fibra pet prodotta ogni anno, quelle certificate GRS (Global recycle Standard) arrivano forse al 15% (Textile Exchange). Mentre altre fonti indicano il 35% del totale 660 miliardi di kg. Dovrebbe impressionare la cifra complessiva di fibre sintetiche usate. Ma molti di noi si identificano solo nel marchio famoso che deve essere ben visibile al tuo dirimpettaio. Mentre le etichette delle composizioni invece sono ben nascoste.

Lo standard 4.2 GRS, ormai riconosciuto internazionalmente, nelle pag. 17>20 porta esempi di cosa si deve e non si deve mettere in chiaro. Se per esempio in un abito si usano anche 80%  fibre di pet di riciclo, non è detto che queste, siano a loro volta contenenti 100% polimeri riciclati, mentre possono essere solo del 20% o del 100%. Conseguenza è l’informazione sull’etichetta che identifica la certificazione GRS che conta e non quella del singolo strato. L’etichetta dell’abito dovrà indicare la % complessiva presente sul peso totale se il capo, come spesso avviene, è un insieme di materiali diversi.

Il problema che in molti dei capi del fast fashion si indicano le %, ma non sono accompagnate chiaramente della certificazione sullo stesso cartellino. E se lo dice il big brand, senza certificazione, può raccontarti qualsiasi cosa.

Le regole generali poi le fanno o la politica (con leggi chiare e soprattutto i controlli dei soggetti proposti) o la coscienza personale, quando non esistono o sono lacunose come oggi. Il tessile oltretutto è assai presente nel quotidiano anche in altri ambiti. Per es. le salviette igieniche, dove spesso il tessuto è una mescola di fibre dal fine vita opposto, senza obbligo di dichiararlo. O nei prodotti igienici a contatto con la pelle, dove la composizione del tessile non è riportata. Con il risultato che molte finiscono in terra, nel wc o gettare nell’indifferenziata, quando potrebbero esserlo nella carta se 100% fibra naturale come cotone o viscosa.

Con la nuova strategia del tessile la EU obbliga al ritiro garantito dei rifiuti tessili da post consumo, in molti casi, ma occorre anche  il concorso del cittadino per rispettarlo. Oggi infatti non sarebbe l’atto di gettare il prodotto nei cassonetti di raccolta del tessile che conta, quanto soprattutto l’atto di acquisto consapevole dei capi. Se sai cosa hai comprato, sai anche come verrà  smaltito. Purtroppo la Moda non invoglia a pensare al fine vita del prodotto ma a concentrare lo sguardo su oggi e subito e spesso neppure al prezzo,  come a confermare che essere cicala è più figo che essere formica. Così oggi il ripensamento di un modo di fare è d’obbligo e si chiama ecodesign.

In attesa del cambiamento auspicato ecco una sottospecie di prontuario per aiutare a scegliere oggi consapevolmente per il bene di domani (senza illudersi che ci riuscirà):

1 Controllare le etichette interne con le composizioni e non fermarsi al cartellino esterno. Evitare quando nel prodotto monostrato (es. T-shirt, camicia ecc) ci sono fibre di natura diversa (es: poliestere e cotone) perché a fine vita sarà difficile sia riutilizzare le miste di fibre di questo tipo (data l’enorme varietà di % di mescola difficilmente ri-omogenizzabili senza danno a l’una o all’altra) e perché una biodegrada e l’altra no.

2 controllare se è ben indicata la composizione dei vari strati, come nelle giacche imbottite

3 controllare se esiste una certificazione con in chiaro indice (%) di biodegradabilità, di riciclato rispetto al peso complessivo del capo

4 controllare se le dizioni ecologico, sostenibile, biologico ecc hanno in chiaro un marchio che le certifica e se riporta il numero della certificazione assegnata (se non hai nulla da temere perché non mettercelo?)

5- controllare (con le app del cellulare) se i marchi delle certificazioni pubblicati corrispondono a certificazioni ufficiali perché ci sono pure le invenzioni grafiche come parole, marchi, simboli ecc.

6 – controllare se il prezzo è congruo al tipo di livello di qualità del prodotto. Nel cotone per es. all’ origine le fibre certificate biologiche non costano il doppio o il triplo di quelle da coltivazioni industriali e il ciclo tessile non produce perdite diverse, semmai è vero il contrario.

7 – controllare se il prezzo è congruo anche quando è troppo basso, tipo il tessile gadget pubblicitario o da souvenir. Se è basso non è solo scarsa la qualità delle materie prime, spesso l’etichetta è approssimata, ma soprattutto poiché l’industria ha più o meno costi energetici, spazi occupati, trasporti simili in tutto il Pianeta. La differenza la fanno lo sfruttamento dell’uomo su l’uomo, i trasporti a rischio, l’evasione fiscale, il contrabbando e l’uso improprio del suolo e delle sue risorse o la posizione di forza dei lobbisti di professione.

8- Scegliere capi che non abbiano la stampa di loghi, scritte, disegni in materiale plastico. Spesso che viene dalle stampanti digitali. Ed acora non è stato inventato un sistema per rimuovere quel composto dalle fibre sottostanti rendendole inutilizzabili al riciclo.

Dati su cui riflettere:

La EU certifica che ciascun cittadino ha 10 kg di tessili da smaltire ogni anno ma recuperiamo solo l’1% delle loro fibre tessili. I materiali della mia  T-shirt gadget (cotone e poliestere) per arrivare fino a me hanno percorso oltre 12.000 km in giro per il pianeta, inquinando acqua, cielo e terra. Tutto ciò per usarla qualche volta e vederla poi trasformata in gas serra in un termo(s)valorizzatore per l’eternità.

tessili

Cosa pensano i consumatori italiani secondo uno studio di mercato di pwc.com

  • 50% ritiene importante acquistare abiti, calzature e accessori sostenibili.
  • 70% vorrebbe conoscere l’impatto ecologico della produzione dei prodotti acquistati.
  • 80% vorrebbe conoscere la provenienza delle materie prime alla base dei prodotti.
  • Nuovi consumatori (Gen M&Z):
  • 90% è sensibile ai temi di sostenibilità.
  • 66% sceglie abbigliamento e calzature realizzati con materiali non animali.
  • 60% ritiene che l’utilizzo di materie prime sostenibili sia un fattore chiave.
  • 63% sceglie prodotti sostenibili (+117% vs 2019).
  • 53% scegli prodotti naturali (+26% vs 2019).
  • 50% sceglie prodotti eco-friendly (+27% vs 2019).
  • 66% dei consumatori si aspetta di ottenere informazioni sui materiali che compongono il prodotto
  • 63% vorrebbe conoscere l’origine delle materie prime e i paesi di produzione

Marco Benedetti
m.benedetticonsulting@gmail.com

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Redazione

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