Ecologia sociale e Clima: intervista a Karl-Ludwig Schibel

L’ecologia sociale è la sola possibilità per vincere la sfida del clima. Intervista a cura di Giorgia Burzachechi.

Speranza contro ogni speranza

Sanare la crisi climatica ripensando l’approccio sociale della politica. È questo il tema alla base dell’ecologia sociale. Ma a che punto siamo? Ne abbiamo parlato con Karl-Ludwig Schibel, sociologo, che dal 1970 fino agli inizi degli anni ‘90 è stato docente di ecologia sociale presso il dipartimento di sociologia dell’Università di Francoforte. Vive da 42 anni a Utopiaggia, una comunità intenzionale a sud del Lago Trasimeno di cui è cofondatore. È stato coordinatore della Fiera delle Utopie Concrete, un evento annuale a Città di Castello che evidenziava esperienze e soluzioni per la conversione ecologica dell’economia e della società. Dal 1992 fa parte della presidenza dell’Alleanza per il Clima delle Città Europee gestendo la reta italiana. Inoltre, cura la rubrica “Life Style” del bimestrale “QualEnergia” di Legambiente.

Ritiene ci sia ancora necessità di spiegare i concetti alla base dell’ecologia sociale?

«Il concetto di ecologia sociale non richiede più spiegazioni. Oggi la Commissione Europea lavora con lo slogan “non lasciare indietro nessuno”, che contempla la transizione ecologica giusta; quindi, socialmente sostenibile è al centro del discorso europeo. È ovvio che tutti i problemi ecologici hanno un versante sociale, ma questo purtroppo per molto tempo è stato trascurato completamente o considerato di secondaria importanza. Al centro dell’attenzione c’era prima o una natura da proteggere o un futuro eco-tecnocratico. Fino a poco tempo fa, per esempio, la trasformazione energetica era una questione di sostituzione delle fonti fossili con le energie rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica. Le ricadute sociali di questa trasformazione erano troppo poco considerate».

Negli ultimi dieci anni, il concetto di trasformazione ecologica si è diffuso ampiamente, ma una parte significativa della società resta diffidente o ostile. A che punto siamo?

«La consapevolezza del processo di trasformazione in atto è ben diffusa, anche se le idee a volte sono vaghe. Però la sfiducia e spesso l’ostilità verso la conversione ecologica si basano anche sulla sensazione di una disuguaglianza, purtroppo a volte reale, per cui i benefici sono per le fasce agiate, come gli incentivi per gli impianti fotovoltaici o gli interventi per l’efficienza energetica della propria casa, mentre i costi devono pagarli tutti, sotto forma di tasse. Potrebbero sembrare dei casi un po’ semplicistici, ma sono di ordine pratico per chi ha meno strumenti economici a disposizione. La mia sensazione è che ci sia una buona conoscenza dei processi in atto; quello che manca è l’organizzazione di questo processo in un modo più equo per tutti”.

L’Europa, almeno nella teoria, si sta impegnando molto per una transizione equa e sicuramente il Green Deal è un ottimo strumento. Come siamo messi in Italia?

«Noi, come Alleanza per il Clima Italia, lavoriamo molto con gli enti locali. In questo Paese ci sono i “soliti noti”, enti “bravi”, che si trovano quasi tutti al Nord. C’è ancora molto da fare. Quando vado ai convegni o alle conferenze di inaugurazione di azioni volte alla transizione, mi sorprende sempre ascoltare i sindaci o le varie cariche dell’amministrazione prendere la parola. Cominciano con dei discorsi bellissimi, di cui sottoscriverei ogni singola parola. Ma quando si entra nel merito del “come” verranno realizzate le azioni, c’è poco di concreto. È una questione di mancanza di volontà politica di andare oltre le buone intenzioni, di inerzia strutturale delle amministrazioni e anche reale mancanza di fondi. La cittadinanza, comunemente, non accoglie di buon grado i cambiamenti e se poi intravede queste difficoltà, predilige la strada più facile (e magari meno sostenibile).

L’Italia si muove molto lentamente, ma si muove verso un’economia circolare con al centro le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. Quello che mi stupisce è dover ascoltare ancora discorsi assurdi sul ritorno del nucleare attuale e sulla fusione nucleare come tecnologia applicabile nel medio-breve termine che miracolosamente fornirà energia elettrica pulita, infinita e a basso costo. Tutti questi discorsi non hanno alcun riscontro nell’economia e nella scienza, eppure ancora oggi si ascoltano da rappresentanti anche di questo Governo».

Da un lato, c’è un recupero della proposta nucleare e del gas metano come male minore; dall’altro, un attacco alle rinnovabili e alla transizione ecologica. Quale dovrebbe essere la risposta degli ambientalisti?

«’Shame and Blame’, perché i tempi per essere gentili sono terminati. La discrepanza fra i problemi che crescono rapidamente e le soluzioni che si applicano troppo lentamente si è fatta ampia. L’Italia sta procedendo, solo che tutto è troppo lento in paragone alla crescita dei problemi. La situazione è drammatica. Quindi zero tolleranza con le false soluzioni e con i delinquenti delle fake news ambientali. Il movimento ambientalista, nella mia percezione, dovrebbe muoversi in due direzioni: il primo, come già detto, molto determinato, verso chi propone false soluzioni che stanno alimentando interessi economici del fossile e del settore energetico tradizionale.

Al contempo occorre anche una profonda autoriflessione interna, capire meglio insieme i problemi come si presentano oggi e come impostare la lotta per le soluzioni. È superato l’approccio che risale alla nascita del movimento ambientalista contemporaneo di divulgare, spiegare, informare. La gente sa e non ha bisogno di prediche e insegnamenti. Sono necessarie nuove strategie e nuove narrative per arrivare alle persone non convinte delle necessità e urgenza della conversione ecologica. Andrebbero organizzati gli stati maggiori della strategia del movimento ambientalista italiano».

Tra pochi mesi ci sarà la COP29 in Azerbaigian, ma le assise preparatorie non promettono bene, specialmente per la finanza climatica. Se non si trovano nemmeno 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, come possiamo impegnarci in un progetto più grande?

«Ho seguito con interesse le Conferenze delle Parti fin dalla prima edizione del 1995 a Berlino. Dopo tutti questi anni mi sembra evidente che il processo internazionale sia sopravvalutato, carico di troppo speranze. Dalle Conferenze delle Parti scaturiscono accordi internazionali come quello di Parigi, ma non hanno alcun carattere vincolante per gli stati membri. Creano un quadro di riferimento per gli attori di buona volontà, non di più e non di meno. Ma trovo inutile spendere tempo a dare giudizi negativi sulle Conferenze. Hanno un loro ruolo e creano danni quando ci si aspetta troppo»… Continua a leggere gratis l’intervista su L’ECOFUTURO MAGAZINE

Redazione

Articoli correlati

0 0 votes
Article Rating
1 Comment
Oldest
Newest Most Voted
Inline Feedbacks
View all comments