La Bolivia espelle definitivamente la Coca Cola dal suo territorio


Circa 20 giorni fa il ministro degli esteri della piccola e “irrilevante” Repubblica di Bolivia, attualmente in carica David Choquehuanca – discendente di una nobile stirpe di guerrieri indigeni, a nome del governo legalmente eletto ha dichiarato:

“Il 21 dicembre 2012, in tutto il territorio della Bolivia, daremo inizio, in concomitanza con il calendario Maya, alle celebrazioni nazionali per la fine dell’era del capitalismo e l’inizio della Cultura della Vita. Il 21 dicembre 2012 sarà l’inizio della fine dell’egoismo e l’inizio della fine della divisione.


In tale occasione  verrà applicata la nuova Legge in materia sanitaria che segna anche la fine della presenza della multinazionale Coca Cola, di cui verrà vietata la produzione, la distribuzione e la vendita. E’ anche la data dell’inizio del Mocochinchè (ndr. Bevanda tradizionale locale al gusto di pesca e frutti tropicali). Tutto ciò avverrà per amore di Pachamama, la nostra Madre Terra che tutti noi rispettiamo”.

Fine del comunicato.

Alcune informazioni antropologiche (ed economiche) sui retroscena per poter essere in grado di elaborare queste informazioni.

Nel febbrraio del 2008, il presidente boliviano Evo Morales, appena eletto, dichiarò che “è arrivato il momento di porre fine alla immonda piaga della presenza della criminalità organizzata gestita dalla Cia per contrabbandare la cocaina nel mondo. Le foglie di coca sono patrimonio vegetale del territorio naturale della Bolivia, ragion per cui i cocaleros (ndr. contadini che lavorano le foglie della coca lavorandola e trasformandola nella pasta bianca che noi chiamiamo cocaina) hanno il diritto di essere legittimi proprietari delle proprie terre, delle proprie piante, del proprio diritto al lavoro pagato secondo le tabelle sindacali. Di conseguenza, indico un referendum per legalizzare la produzione, diffusione e distribuzione delle foglie di coca, compresi tutti i loro derivati”.

Così fece. Il referendum vinse con una schiacciante maggioranza.

Vennero denunciate ed espulse dal paese, circa 1500 società finanziarie (al 55% statunitensi, al 30% italiane e al 15% misto olandesi-belgi) che in realtà si occupavano di gestire gli ingenti profitti derivanti dalla produzione, distribuzione e vendita delle foglie di coca. (Va da sé, non è stato dato rilievo alcuno a questi eventi in Italia, ma diversi sommovimenti in borsa a Milano furono provocati dall’esito di questo referendum).

Poiché, in seguito al referendum, le piantagioni di coca sono state definite e identificate come “risorsa naturale del popolo boliviano e risorsa strategica di carattere economico a interesse nazionale” la gestione delle piantagioni è passata sotto controllo statale che li dà in gestione a contadini locali. Nessuno straniero è autorizzato a coltivare la coca.

Per la durata di quattro anni, Evo Morales, avvalendosi di consulenti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha protestato contro “lo strabordante investimento di multinazionali delle bibite che vengono qui e si prendono le foglie di coca per fare le loro bibite da vendere soprattutto in Usa e in Europa occidentale, senza però dire al consumatore che stanno bevendo succo di coca che, in breve tempo, li renderà poi facili e potenziali consumatori della pasta di cocaina. La Coca Cola è tra queste”.

La Coca Cola, va da sé, protestò con vigore, sostenendo che non era vero niente e che Evo Morales sosteneva il falso.. Allora, Morales chiese formalmente alla Coca Cola che dimostrassero “scientificamente” e “oggettivamente” che non c’erano foglie di coca nella bibita e chiese che l’azienda presentasse la ricetta ad un comitato scientifico dell’Onu, i cui nomi dovevano essere selezionati dall’Organizzazione Modiale della Sanità.  La Coca Cola si è rifiutata sostenendo che la ricetta “è ancora segreta e noi abbiamo il diritto garantito dalla libertà di commercio di produrre le  bibite che vogliamo”.

Il braccio di ferro si è concluso con l’espulsione dell’azienda in quanto produttrice “di bibite lesive della salute” da cui il divieto di venderle.

Al posto della Coca Cola, dal febbraio del 2012 in tutto il territorio boliviano è in vendita la “Coca Colla” bibita gassata rinfrescante prodotta “ufficialmente” con foglie di coca, acqua e zucchero di canna. La parola colla indica il nome di una tribù Maya vissuta nel territorio boliviano come civiltà autoctona fino al 1550, da allora ridotti in stato di schiavitù dagli europei.  “Los Collas” erano una variegata popolazione andina molto diffusa in Bolivia e soprattutto Perù. La bibita ha avuto successo. L’hanno acquistata anche tre grosse catene di supermarket californiani che la vendono con enorme successo commerciale, avendo rigettato le proteste formali della Coca Cola che ne aveva chiesto la proibizione alla vendita.

Oltre a questo, Evo Morales personalmente ha annunciato che “in data 21 dicembre, rispetteremo la formalità del calendario Maya dichiarando conclusa per sempre la società capitalista del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e chiamo quindi a raduno tutte le popolazioni indigene in Sudamerica, i loro discendenti e simpatizzanti,  per celebrare in spiaggia nella Isla del Sol la prima “Riunione Mondiale degli Indigeni” per cominciare ad organizzare i progetti relativi a una nuova interpretazione della società e delle relazioni tra persone”.

Va ricordato che il 21 dicembre, in quell’emisfero, si celebra il solstizio d’estate.

La curiosa iniziativa di Morales ha fatto subito breccia ed è piaciuta, trasformandosi in un misto di evento spettacolare, nuovo marketing sudamericano, e nuova moda da lanciare per la prossima estate. Argentini, uruguaiani e brasiliani, pur protestando in maniera davvero “really really soft” rispetto all’espulsione della Coca Cola dalla Bolivia, hanno aderito alla data celebrativa. Diverse compagnie aeree low cost hanno lanciato pacchetti viaggio e affitti di charter per andare a celebrare in tutte le spiagge del Sudamerica “la fine del capitalismo come modello di vita”.

Un’ultima notazione (forse la più importante): la Coca Cola non ha presentato nessuna protesta formale. Si accontentano che non si dia troppa diffusione alla cosa.

In Perù, per lanciare la concorrenza alla Bolivia, hanno lanciato la “Inka Cola” bibita locale a base di foglie di coca peruviana che sta avendo un enorme successo e sarà l’ hit della imminente estate sudamericana. Non è una notizia strepitosa né può minimamente intaccare l’economia mondiale, essendo il mercato boliviano e peruviano una fettina davvero microscopica rispetto ai grandi mercati euro-statunitensi (che fanno le mode e lanciano i trend).

Da accogliere quindi – in teoria- con raccapriccio da alcuni o con un sorriso divertito da altri. Ciò che interessa (da cui l’esigenza di proporla come post alla vostra curiosità) è la valenza simbolica di questi atti.

Sono la prova della nascita (e possibilità) di interpretazioni diverse dell’esistenza, della vita e dell’economia, applicando il concetto di “glocal”, da tutti gli economisti più avanzati considerato l’unica modalità vincente oggi per stare sul mercato: tener presente l’esistente della globalizzazione mondiale andando a produrre merci che abbiano un fortissimo impatto di immagine e che appartengano alla produzione locale di questo o quello stato, per rilanciare il territorio, la cultura artigianale di provenienza e capovolgere quindi i diktat dell’oligarchia che vuole de-industrializzare ogni nazione per  unificare merci, prodotti e qualità sotto i dettami della cupola finanziaria strozzina. Abolendo la diversità.

In tal modo ogni nazione, ogni popolo, ogni etnia, ha la possibilità di passare dalla pedissequa e passiva necessità di seguire mode lanciate dalla cupola finanziario-economica al ben più affascinante mondo di chi “le mode le fa e le lancia”  e quindi non teme concorrenza.

Basta andare ad acquistare un paio di scarpe da uno sconosciuto artigiano marchigiano e friulano, o un capo di biancheria femminile da sconosciuti artigiani pugliesi e toscani  e confrontarli poi con la produzione di oggetti cinesi, coreani e indiani che inondano il nostro mercato interno, per capire la differenza.

Comprendere, quindi, il vero risvolto di questa crisi economica fatta esplodere per raggiungere il risultato di abbattere la domanda, creare quindi disoccupazione e facendo così fallire le industrie nazionali, ma soprattutto abbassare ed appiattire gusti, le aspettative, bisogni ed esigenze. Non è un caso che l’unico mercato del made in Italy ancora operativo è quello del segmento di lusso, perché il consumatore che può spendere cerca la qualità italiana che è insostituibile.

Da noi si dice spesso “se non stiamo attenti finiremo come la Bolivia o come l’Argentina”. Lì, in Sudamerica, si è ormai affermata una lettura davvero opposta del mondo. Pur essendo piccoli piccoli rispetto a noi, tra di loro si dicono “stiamo attenti altrimenti faremo la fine dell’Italia e della Spagna”. E’ considerata una tragedia esistenziale. Siamo diventati maestri di dolore, totem distruttivi, simboli di idiozia collettiva, popoli senza dignità, incapaci di rimboccarsi le maniche e inventarsi un modello alternativo.

E’ davvero tutto un altro mondo. 

FONTE | Libero Pensiero: la casa degli italiani esuli in patria

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