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L’insostenibilità delle bevande confezionate

Quando il piacere di una bevuta non fa sempre bene al pianeta. Il mercato delle bevande confezionate

Parlare da cittadini consapevoli dell’impronta ambientale nelle nostre scelte quotidiane non è mai facile. Soprattutto quando si parla di beni voluttuari che sono ormai parte della nostra aspettativa quotidiana. Il maggior rischio è urtare la sensibilità, sentirsi inadeguati o semplicemente rafforzare il grado di menefreghismo che sconfina in egoismo.  Tra i beni che non sarebbero indispensabili nel modo in cui ci sono proposti, ma ormai entrati a pieno nella nostra esistenza quotidiana, ci sono le bibite. Essere coscienti che l’unico liquido veramente indispensabile per le creature viventi è l’acqua naturale non ci salva dalle conseguenze di altri piccoli gesti individuali, quasi automatici ormai. Questi gesti, moltiplicati per milioni, se non miliardi di altri gesti simili, pongono il problema su un livello ben diverso.

L’acqua in bottiglia per esempio è una bibita, anche quando non frizzante o arricchita da essenze. In particolare in Italia ci arriva in quasi 14 miliardi bottiglie di pet, confermandoci i più grandi consumatori pro capite sul Pianeta con oltre 218 litri a persona. Ciò nonostante il più alto numero di fonti rispetto a tutta la EU. Problema forse più culturale che tecnico con impatto importante sull’ambiente. Ma la vista sul mondo, come ricorda statista.com, ci fa capire quanto il nostro superficiale o necessario gesto abbia una impronta diversa.

Nel 2021 sarebbero 583 miliardi le bottiglie di PET prodotte. Come rifiuto la plastica delle bottiglie è un peso piuma da 240 milioni kg rispetto, per esempio, a quello prodotto dai 400 miliardi di  lattine di alluminio consumate ogni anno nel Pianeta. Queste come imballaggio pesano circa circa 3 volte di più. E purtroppo ne vengono recuperate forse non più del 10-15% a livello planetario. Con le conseguenze che vediamo nei telegiornali, sentiamo dagli scienziati, ci troviamo sui sentieri di montagne o sulle spiagge, persino negli stomaci. Non solo dei pesci purtroppo.

Le lattine  di alluminio più delle bevande in bottiglia di pet, ci avvicinano al concetto di bibita. Di acqua in lattina si comincia a vedere qualcosa da poco tempo. Mentre di bibite gassate e alcolici a bassa gradazione ne sono pieni gli scaffali. Secondo i vari siti che mettono a confronto statistiche di tutti i tipi,  il vero re nel mondo delle bibite confezionate è poi l’anidride carbonica, noto gas che viene aggiunto alla bevanda e che la rende effervescente. Le bibite gassate sono le favorite dagli umani e dalle industrie che lo sanno bene. Questo gas aggiunto agli zuccheri e altri composti naturali presenti nelle bevande richiederebbe una più debita considerazione pubblica, ma in genere resta affare per gli addetti ai lavori.

Quello delle bibite gassate è infatti un un gigantesco business stimato in 400 miliardi di unità vendute ogni anno. Madehow stima che solo negli  USA si tratta di un affare da 100 miliardi di pezzi da 33 ml.1 al giorno per ogni americano, con gli effetti indiretti e ahimè visibili dei tanti zuccheri assimilati nell’organismo. Mentre in Italia la stima delle associazioni è di oltre 5 miliardi di unità prodotte. Ovvero una media di 0,16 al giorno pro capite (fortunatamente 6 volte meno di una cittadino USA).

Secondo i consorzi il 70% delle lattine è riciclato, ma resta il fatto che quel 30% non recuperato vale più di 1 miliardo di lattine. L’Italia è la più virtuosa in EU con circa 12 milioni di kg di alluminio recuperato (1 lattina da 33 ml pesa c.a. 12,5 gr), come si legge nelle comunicazione 2020 del consorzio di recupero CIAL. Negli USA questo dato scende al 55% su un numero impressionante di unità consumate. Nei paesi in via di sviluppo il dato si perde, anche se bisognerebbe fermarsi sulla sponda dei fiumi per farsene una idea.

La dispersione in ambiente delle bevande confezionate, siano esse di alluminio, plastica o vetro, resta un dato impressionante, sottovalutato dai cittadini come dalle autorità evidentemente. Intendiamoci: anche per le bevande in vetro le statistiche sono impietose. Gli stessi professionisti del settore, come  riporta Futuremarketinsights, evidenziano il problema. Il vetro usato per fare bottiglie è circa il 36% della produzione mondiale di vetro. Di cui a sua volta quello usato per contenitori/imballaggi ne rappresenta il 50%. In Italia sono solo 2,45 miliardi i contenitori in vetro (su 11 miliardi) che vengono riciclati, cioè solo  22%: tristissimo dato! Questo significa per i consorzi di recupero un’enorme inefficienza del sistema, spesso dovuta a negligenza del cittadino. Ma più spesso all’incapacità di incidere sulle coscienze delle persone da parte delle autorità.

bevande confezionate

Che sia lassismo culturale, educativo cioè, industriale, ma soprattutto politico, non cambia il paradigma. Prendiamo dal Pianeta beni utili e li trasformiamo in cose inutili perché  poi non siamo in grado di raccoglierli e ri-lavorarli.

Ma c’ è un ultimo appunto da fare all’industria delle bevande, al commercio e alla politica che dovrebbe tutelare tutti noi: la correttezza nella comunicazione. ALMENO quando questa si fa vanto della trasparenza al consumatore in tema di sostenibilità e su cui dovrebbe vigilare un area specializzata. L’invito a pensare al Pianeta è presente nella comunicazione di molti brands. Nella foto seguente si vedono le scritte presenti che invitano correttamente al riciclo e che scrivono anche “100% riciclabile”.

bevande confezionate

Ma questo non è vero. Legalmente lo possono fare. La norma e sicuramente la prassi, sembrano prevedere infatti di dover mettere in chiaro la dichiarazione di un elemento che non sia contenuto da ingerire, solo se superiore al 5% del peso dell’oggetto. Anche se questo materiale magari è quello più a contatto diretto con il cibo come nel caso delle lattine di alluminio. Il peccato maggiore sta che il grande brand potrebbe avere la forza di agire in trasparenza con il suo cliente. Ma gli esperti di marketing preferiscono evidentemente veleggiare sul bordo del Green Washing. Peccato, occasione persa.

Le lattine sono infatti ricoperte internamente ed esternamente di uno strato di resine di sintesi, non dichiarate appunto, tra cui delle plastiche come poliestere, che pesano per circa il 3% dell’imballaggio. Tra le motivazioni assolutamente tecniche, il bisogno di evitare che particelle di alluminio finiscano nello stomaco del cliente bevitore, quindi sarebbe cosa giusta. Come scrive assorbe.it “l’anidride carbonica viene aggiunta con  un processo chiamato carbonatazione ed è interessante notare – si legge – che la sensazione di effervescenza di queste bevande non è quasi mai causata dalle bollicine, ma di fatto dalla presenza di acido carbonico diluito creatosi durante la carbonatazione”. Questo acido dà una lieve sensazione di pizzicore sulla lingua.” Non fa male, questo è certo, ma questa acidità, a seconda della composizione delle bibite, può essere corrosiva per la lattina come si intuisce dal sito specializzato imbottigliamento.it.

“A lattina chiusa la rigenerazione dello strato interno di ossido di alluminio dipende dalla concentrazione di ossigeno residuo. In assenza dello strato di ossido si innesca un processo di corrosione che compromette la shelf life del prodotto e l’immagine del packaging. Di qui la necessità di proteggere il contenitore con rivestimenti (coating) interni ed esterni. I coating interni difendono prodotto e metallo da interazioni che possono degradare il materiale, indurre cessioni e modificare le caratteristiche della bevanda…” In altre parole la tecnica ci consente di godere del gusto leggermente acidulo della bevanda, ma occorre proteggere la lattina. Senza andare troppo nel dettaglio tecnico, vengono usate delle resine di sintesi, mix abbastanza complessi, che proteggono l’alluminio della lattina, dalla cessione di questo alla bevanda. All’esterno queste resine sono usate per proteggere soprattutto la grafica e i colori accattivanti dei vari brand.

Come si vede nella foto realizzata in un laboratorio (foto seguente), le resine (simili a plastiche) sono un elemento ben presente (fortunatamente dal 2008 è stato bandito il cancerogeno bisfenolo A, fino ad allora utilizzato). Ne rappresentano circa il 3% del peso. Questa mix di chimica di sintesi, nella produzione italiana che rappresenta circa l’1,33% del mercato mondiale, pesa approssimativamente per 150 milioni kg. E viene vaporizzata nella fusione di alluminio, perché la separazione richiederebbe un aggravio di costi, lo sviluppo di una tecnologia adeguata. Ma soprattutto il mix di resine sarebbe comunque tecnicamente irrecuperabile.

E’ quindi scorretto indicare al consumatore che quella lattina è 100% riciclabile anche se la legge o meglio la non-legge, lo permette. Al centro resta infatti sempre l’idea che il consumatore non deve sapere troppo. In un secolo di ricerca forzata di globalizzazione e di apparente semplificazione della esistenza degli esseri umani, le conseguenze le pagano sempre quelli che vengono dopo, mentre i quattrini se li godono in pochi, adesso.

bevande confezionate

Nota: le classiche lattine da 33 ml sono alte da 12 a 14,5 cm. Quelle prodotte ogni anno solare nel Pianeta, se messe in fila, coprirebbero 2.019 volte la circonferenza del pianeta, costituirebbero un ponte largo oltre 1000 metri tra la Terra e la Luna, come una autostrada a 5 e più corsie per parte.

Marco Benedetti
m.benedetticonsulting@gmail.com

Leggi anche L’insostenibile leggerezza dell’usa&getta – Ecquologia²

Cover Photo by Franki Chamaki on Unsplash

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