Dalle Comunità al Pianeta: nessuno si salva da solo

Dalle comunità al Pianeta. Un articolo di Giorgia Marino per l’Ecofuturo Magazine.

Nonostante ciò che possiamo percepire nel quotidiano, siamo una specie votata alla cooperazione di comunità

Non lo si direbbe dalla congiuntura politica che stiamo vivendo, ma ciò che ha reso gli esseri umani dei campioni evolutivi è la loro incredibile capacità di cooperare. Ad affermarlo sono fior di biologi, antropologi, storici e filosofi come David Sloan Wilson, Martin Nowak, Elliot Sober, Edward O. Wilson e Yuval Noah Harari, che definiscono la nostra specie come «supercooperante». Unirsi in comunità, lavorare in squadra, organizzarsi in complesse strutture sociali e creare reti sarebbero state dunque le armi vincenti dell’Homo sapiens, più ancora dell’intelligenza, per diventare la specie dominante sul Pianeta. Su questo asso nella manica conviene allora puntare anche oggi che la civiltà umana si trova ad affrontare la sfida più grande della sua storia. Ovvero la crisi climatica e ambientale.

Da questo punto di vista, cooperare è ovviamente necessario a ogni livello. A partire dai grandi consessi internazionali dove si decidono politiche e si firmano accordi più o meno vincolanti, e più o meno efficaci, per orientare l’economia. Ma se governi e organi sovranazionali si muovono necessariamente facendo due passi avanti e uno indietro, con la lentezza esasperante delle istituzioni e la circospezione della diplomazia, questo non significa che le comunità debbano rimanere ferme ad aspettare. Anzi, l’azione di gruppi, associazioni, collettivi, villaggi, quartieri e città, oltre ad avere impatti immediati sulla vita quotidiana a svariati livelli (ambientali, economici, sociali, psicologici), ha anche buone probabilità di diventare contagiosa, preparando il terreno per quando arriveranno finalmente le politiche dall’alto.

Internazionale, nazionale, individuale. E locale

In uno studio pubblicato a ottobre 2021, il Think Tank londinese “New Local” – un network di oltre 70 organizzazioni nato allo scopo di promuovere le community-based solutions – dichiara che «l’azione locale è il pezzo mancante nei piani per combattere il cambiamento climatico». «I livelli considerati – si legge nell’introduzione a “Communities vs Climate Change”sono in genere quello internazionale, dei trattati, delle conferenze sul clima, degli accordi fra super-potenze; quello nazionale, degli impegni sul taglio di emissioni e degli incentivi per la transizione ecologica; e quello individuale, che si richiama più che altro alle responsabilità del cittadino come consumatore e come votante alle urne. Il livello locale è invece perlopiù sottovalutato, quando non direttamente ignorato. Eppure questa scala di azione ha caratteristiche di tempestività e concretezza che alle altre, troppo astratte o troppo insignificanti, fanno difetto».

I ricercatori di “New Local” individuano in particolare tre punti di forza dell’azione a livello locale. Innanzitutto, la responsività. Un’iniziativa dal basso è più reattiva alle situazioni contingenti e si adatta più facilmente e velocemente a condizioni che cambiano, rispetto a quanto farebbero provvedimenti presi a livello nazionale o, peggio, internazionale. Poi c’è il potere di adattamento. Dal momento che gli effetti del clima mutano a seconda del contesto, è chiaro che un’azione decisa a livello locale ha più possibilità di rispondere in modo efficace alle emergenze specifiche di un’area. Infine, la legittimità. Una decisione emersa da un consesso comunitario o comunque locale viene accettata più facilmente rispetto a una disposizione calata dall’alto. È il primato del bottom-up sul top-down.

Rivoluzioni a piccoli passi

«Scegliete battaglie abbastanza importanti da contare, ma abbastanza piccole da vincerle». Così lo scrittore e attivista americano Jonathan Kozol riassume la teoria della rivoluzione a piccoli passi. Un metodo che è perfettamente applicabile all’azione climatica intrapresa a livello locale e di comunità. Cominciare a cambiare il pezzetto di mondo su cui camminiamo ogni giorno e farlo insieme alle persone che ci stanno intorno, è il miglior modo per non farsi abbattere dalla frustrazione e sopraffare dalla disperazione. E soprattutto, funziona.

Sono innumerevoli gli esempi che ne provano l’efficacia, basta guardarsi intorno per scoprirli. Ci sono i gruppi di acquisto solidale o Gas, che uniscono il supporto per piccole aziende agricole biologiche alla grande soddisfazione di mangiare frutta e verdure sempre fresche o le comunità energetiche rinnovabili, che riuniscono in rete singoli cittadini e famiglie per autoprodurre energia pulita, risparmiando sulle bollette e contribuendo alla transizione o ancora le biblioteche di oggetti, che superano la cultura del possesso estendendo il modello della sharing economy a utensili di uso comune, attrezzi da giardino, equipaggiamenti sportivi e addirittura giocattoli.

C’è anche chi fa il “compost di quartiere” e ridistribuisce in loco il terriccio risultante, come succede nell’XI Arrondissement di Parigi, dove i cassoni di legno in cui gli abitanti dell’isolato vanno a versare i loro rifiuti organici sono diventati un punto di ritrovo e di socialità, per scambiarsi consigli di giardinaggio e organizzare feste. Così come sono un centro di socialità gli Orti Generali di Torino, progetto di urban farming partito dalla riqualificazione di un’area periferica con tanti piccoli appezzamenti sparsi e coltivati abusivamente che oggi conta 170 orti dati in gestione a prezzi super popolari, un polo didattico, un orto collettivo e un’area per pranzi ed eventi. Diventati un modello di rigenerazione urbana, gli Orti Generali hanno vinto nel 2023 un premio nazionale e sono andati a rappresentare l’Italia al Premio del Paesaggio del Consiglio europeo.

Sono tanti piccoli pezzi che compongono un quadro di speranza e che a volte ottengono risultati così eclatanti da fare il giro del mondo. Come è successo a una piccola isola del Nord Europa.

Risultati visibili

Nel 2007 Samsø, isola della Danimarca, è diventata la prima isola al mondo alimentata al 100% da energia rinnovabile. Conta poco più di 4 mila abitanti ed è riuscita nell’impresa in meno di un decennio e il suo percorso è diventato un caso da manuale, studiato in tutto il mondo. Dall’essere totalmente dipendente dall’importazione di combustibili fossili, Samsø basa oggi il suo intero approvvigionamento energetico su 11 turbine eoliche on-shore e 10 off-shore. E la trasformazione è tutta merito della comunità… Continua a leggere gratis l’articolo su L’ECOFUTURO MAGAZINE

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