Organico è il suolo: l’agroecologia e la concimazione organica

La concimazione organica come uno strumento concreto e basilare per un’ agricoltura resiliente e carbon-negative nei nuovi scenari di agriecologia. Un approfondimento di due grandi esperti agronomi del CIB come Stefano Bozzetto e Lorella Rossi, apparso sul numero 3 di Ecofuturo Magazine, la rivista bimestrale online delle innovazioni di Ecofuturo.

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Parliamo di agricoltura e di cambiamenti climatici: il cuo­re di tutto è il bene più pre­zioso nelle mani dei nostri agricoltori: la terra, il suolo agrario. «La terra è sottoposta a una crescente pressione umana. La terra è una parte della solu­zione. Ma la terra non può fare tutto».

Nel Rapporto “Cambiamenti climatici e terra” si afferma che mantenere il ri­scaldamento globale sotto i 2° C è possibile solo riducendo le emissioni di gas a effetto serra di tutti i settori, compre­si i terreni e gli alimenti. «L’agricoltura, la silvicoltura e altri tipi di uso del suolo rappresentano il 23% delle emissioni di gas a effetto serra di origine umana, – ha affermato Jim Skea, copresidente del grup­po di lavoro IPCC III. – Allo stesso tem­po, i processi naturali terrestri assorbono l’anidride carbonica equivalente a quasi un terzo delle emissioni di anidride car­bonica prodotte dai combustibili fossili e dall’industria».

Il Suolo agricolo e la Natura in generale, le cosiddette “natural climate solutions”, han­no, secondo il premio Nobel Rattan Lal, un potenziale di sequestro capace di ridurre la concentrazione atmosferica in questo secolo di circa 150 ppm. Le emissioni ne­gative non sono una “scusa” per continuare a emettere carbonio fossile dalla geosfera nell’atmosfera. Ciò che dobbiamo fare è molto chiaro: ridurre le emissioni da fonti fossili il più rapidamente possibile incominciando dal carbone e dal petro­lio, sostituendoli con fonti rinnovabili e nel contempo ridurre attivamente le concentrazione di CO2 nell’atmosfera catturandola e sequestrandola dove non è dannosa: nel suoli agricoli, nel costru­ito, nel sottosuolo.

Sequestro di carbonio nei suoli agricoli

Il sequestro di carbonio nei suoli agricoli, a partire da quelli coltivati, è tra le soluzioni più efficaci da attuare in quanto ne miglio­ra nel contempo la fertilità. Dopo anni di concimazione chimica, i suoli agricoli si sono impoveriti sino a raggiungere in mol­ti casi anche nella fertile pianura padana, meno dell’1% di sostanza organica. Con questi contenuti in sostanza organica non c’è vita nel suolo che possa definirsi tale. La produzione agricola è completamente dipendente dagli apporti di fertilizzanti esterni. Più il terreno è “vuoto di carbonio”, impoverito di sostanza organica, maggiore è il potenziale di sequestro; «Circa 135 miliardi di tonnellate di carbonio sono state perse nell’atmosfera, in parte a causa delle pratiche agricole che hanno rimosso il carbonio dal suolo» ha affermato Lal. «Tali pratiche includono di lasciare il terre­no nudo dopo il raccolto, arare la terra e bruciare i residui del raccolto, piuttosto che lasciarlo disintegrare attraverso il lavo­ro dei microrganismi nel suolo. Utilizzan­do pratiche agricole rigenerative, il suolo può rimuovere dalle 65 alle 75 parti per mi­lione di anidride carbonica dall’atmosfera. Ciò significherebbe che tra 25 e 50 anni, i 135 miliardi di tonnellate di carbonio persi nell’atmosfera possono essere ripristinati nel terreno di appartenenza».

Il suolo non è una miniera, non è un am­biente confinato in cui “stoccare della CO2”. La sostanza organica cresce nel terre­no in funzione della quantità degli appor­ti, che a loro volta devono essere maggiori delle perdite, che comunque possono essere ridotte, ma mai azzerate del tutto.

Dobbiamo quindi fare in modo di aumen­tare gli apporti di sostanza organica e fare sì che il carbonio nel suolo resti il più a lungo possibile, creando un bilancio posi­tivo. Passare cioè da tecniche di fertilizza­zione che si basano solo sugli apporti degli elementi chimici a una tecnica di “Integra­ted Soil Nutrient Management” (Gestione integrata dei nutrienti del suolo) che con­sideri anche gli apporti di carbonio, privi­legiando quindi la concimazione organica.

Agroecologia al servizio del clima che cambia

L’interesse per il potenziale di stoccaggio nei suoli è legato al fatto che il suolo costi­tuisce il più grande serbatoio di carbonio terrestre, pari a circa tre volte il contenuto attuale di carbonio dell’atmosfera, quattro volte l’ammontare delle emissioni antro­pogeniche cumulate sino a oggi dagli inizi della rivoluzione industriale e 250 volte l’ammontare delle emissioni da combusti­bile fossile annuali. Incrementare il conte­nuto di carbonio nel suolo, anche di poco in termini percentuali, può rappresentare un sostanziale contributo alla sottrazione di CO2 dall’atmosfera; allo stesso modo una perdita di carbonio costituisce un ostacolo a obiettivi ambiziosi di mitiga­zione del cambiamento climatico.

I principi fondamentali della soil carbon sequestration” (sequestro del carbonio nel suolo) sono due, tra loro correlati: Aumentare gli input di sostanza organica al terreno attraverso una intensificazio­ne ecologica delle produzioni agricole al fine di aumentare l’apporto di resi­dui agricoli e ripristinare o incrementa­re la concimazione organica dei suoli; ridurre il disturbo della vita biologica dei suoli agricoli riducendo al minimo le lavorazioni ricorrendo alle minime la­vorazioni, sino alla semina su coltura di copertura vivente.

La cosiddetta agricoltura intensiva non ha proprio nulla di “intensivo” in termini di conversione fotosintetica dell’energia sola­re in biomassa: una rotazione soia – mais biennale, garantisce una copertura vegetale degna di tale nome solo per 8-10 mesi su 24. Nessun proprietario di un impianto fo­tovoltaico si sognerebbe di tener spento il proprio pannello per 14 mesi su 24. Eppu­re in agricoltura adottiamo queste rotazioni per mancanza di convenienza economica a praticare le colture di copertura.

Produrre di più dallo stesso campo, più carbonio da fotosintesi ottenuto in modo ecologico migliorando l’efficienza nell’u­tilizzo dell’azoto, dell’acqua e del carbo­nio con una copertura prolungata del ter­reno grazie a colture di copertura invernali ed estive, è quanto dobbiamo sforzarci di fare unitamente a minime lavorazioni e agricoltura di precisione grazie alla diffu­sione di supporti digitali GPS ottimizzan­do l’efficienza dell’uso dell’acqua e dei nu­trienti, riducendo al contempo i fenomeni di respirazione e perdita della sostanza or­ganica. Un digestore anaerobico inserito in un’azienda agricola può servire proprio a fare tutto questo.

Biogas fatto bene al servizio dell’agroecologia

A differenza di altre bioenergie, con la digestione anaerobica grazie alla trasfor­mazione biochimica restano disponibili “riciclati” nel digestato il 100% dei nu­trienti, azoto in primis e circa il 40-50% del carbonio in ingresso, rimasto indige­rito. La digestione anaerobica per questo non è una bioenergia come le altre ma un vero e proprio facilitatore della conversio­ne agroecologica delle aziende agricole. “Spontaneamente” un agricoltore del bio­gas fatto bene efficiente adotta le seguenti pratiche agronomiche:

  • aumento sostenibile della produzione fotosintetica con le doppie colture;
  • sviluppo della concimazione orga­nica con riduzione netta dell’uso di concimi chimici;
  • adozione delle tecnologie del pre­cision farming e dei contributi della digitalizzazione (e robotica) al mi­glioramento della sostenibilità delle pratiche agricole;
  • riduzione delle emissioni derivanti dalla produzione di effluenti zootec­nici e sottoprodotti agroindustriali;
  • rapida sostituzione di fonti rinno­vabili, solare e biometano in primis, negli usi finali dell’energia.

Il sistema ha un valore nel suo complesso; per esempio l’utilizzo del digestato rispet­to alla concimazione organica con effluen­ti bovini, comporta un miglioramento dell’indice di umificazione degli apporti organici esterni; a questo riguardo il bio­gas fatto bene da tempo sostiene l’impor­tanza dell’utilizzo delle doppie colture in digestione anaerobica invece che del sove­scio, previa una restituzione del digestato in occasione della semina del secondo rac­colto. Il bilancio del carbonio è nettamen­te migliore nel caso di sistemi colturali che prevedono la doppia coltura per il biogas e restituzione del digestato in presemina, rispetto al sovescio.

Il digestore anaerobico in un’azienda agri­cola è quindi come se fosse un secondo ru­mine, il biogas come un facilitatore della concimazione organica e della conversio­ne agroecologica delle pratiche agricole convenzionali. Attraverso una sempre più estesa adozione di queste pratiche è possi­bile per un azienda dedita all’allevamento di bovini diventare sempre più indipen­dente dall’utilizzo di proteine di acquisto (per esempio soia brasiliana) mediante la diffusione di colture di copertura a base di cereali ed azoto fissatrici seguite da una coltura estiva per il digestore (per esem­pio il mais), riducendo sino a eliminare il costo di concimazione chimica attra­verso una aumento della disponibilità di sostanza organica non limitata solo agli effluenti della propria stalla ma al digesta­to prodotto con questi e con colture di secondo raccolto.

Il digestato è una nuova risorsa per disac­coppiare lo sviluppo della concimazione organica dalla crescita indefinita del patri­monio zootecnico. Il ruolo dei ruminanti nelle aziende agri­cole è stato quello di “bioreattori a quattro zampe” in grado di trasformare risorse li­gnocellulosiche non commestibili in pro­teine nobili e amminoacidi essenziali.

I ruminanti sono spesso considerati tra i principali responsabili della crescita delle emissioni di gas serra. In realtà, se consi­deriamo il patrimonio bovino attuale de­gli Stati Uniti, in peso è sostanzialmente analogo a quello delle mandrie di bisonti presenti nelle praterie del Mid West prima della colonizzazione degli europei.. L’ado­zione di razze altamente produttive per latte e carne e il miglioramento delle con­dizioni di allevamento, è stata il miglior modo per ridurre le emissioni per unità di capo allevato, in particolare di quelle ente­riche di metano.

Ma una diffusione della concimazione or­ganica supportata da un’indefinita cresci­ta del patrimonio zootecnico non sarebbe possibile poiché il fabbisogno di superfi­cie e di nutrienti in particolare di azoto, per la produzione di foraggi renderebbe questa prospettiva non sostenibile dalle risorse del Pianeta. La digestione anae­robica nelle aziende agricole, è allora un modo concreto per disaccoppiare la diffusione della concimazione organica dalla crescita indefinita del patrimonio zootecnico ovvero per poter disporre di nuovo concime organico dove la zo­otecnia non è diffusa.

Il digestore in un’azienda agricola diventa quindi uno strumento senza alternative per la diffusione della concimazione orga­nica e delle migliori pratiche per il seque­stro del carbonio nei suoli e per il ripri­stino della fertilità biologica dei terreni; è questo il modo in cui pensare alla dige­stione anaerobica in un’azienda agricola, prima ancora di considerarlo una fonte di gas rinnovabile.

Stefano Bozzetto – Dottore agronomo, imprenditore, membro Comitato esecutivo CIB e consigliere EBA
Lorella Rossi – Dottore Agronomo, Responsabile Area Tecnica CIB

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