Genova: le strane analogie tra gli elettrodotti e il “Ponte Morandi”

Ancora scossi nel profondo dal gravissimo evento del crollo del Ponte Morandi a Genova dei giorni scorsi, con un pensiero alle vittime di quel ponte ed ai loro familiari, oltre che a coloro che sono stati coinvolti con la messa in discussione della propria dimora, rivolgendo lo sguardo a quelli che saranno i complessi approfondimenti che si renderanno necessari per stabilire le esatte cause che hanno determinato questa tristissima pagina per il nostro paese, pubblichiamo oggi con piacere questa riflessione di un amico di Ecquologia ed un uomo ed un tecnico come Massimo Monti, che ha speso decenni di appassionata attività professionale nell’ambito delle linee ad Alta Tensione, che cerca di dare il suo modesto contributo cercando di tracciare possibili punti di contatto tra queste due tipologie di grandi infrastrutture.

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Mi chiamo Massimo Monti ho 62 anni e mi sono diplomato nel 1975 come perito meccanico e perito elettrotecnico Capotecnico. Ho lavorato per 30 anni in Enel Distribuzione di cui 20 anni nel settore linee alta tensione.

In particolare ho lavorato nel centro progettazione impianti alta tensione della Toscana con sede a Firenze quando le linee alta tensione fino a max di 132 kV erano di pertinenza di Enel Distribuzione. Il mio ultimo incarico è stato tecnico specialista esperto di linee alta tensione. Ho progettato costruito oltre 120 km di linee AT in tutta il centro Italia e ho allacciato circa 20 cabine primarie 132/15 kV.

Il mio compito specifico era quello di progettare linee a traliccio in semplice e doppia terna su tracciati esistenti con ricostruzione dell’esistente elettrodotto oppure su nuovi tracciati e quindi con una nuova progettazione. Mi occupavo inoltre di  verificare impianti in esercizio sia dal punto di vista meccanico che elettrico dell’elettrodotto. Inoltre fra i vari compiti affidatemi era quello di seguire l’intera commessa dall’appalto alla realizzazione e collaudo e messa in esercizio.

Fra i miei compiti quando venivo chiamato come esperto di calcolo  di tesature dei conduttori, nel caso di revamping, anche quello di  verificare le caratteristiche meccaniche dei tralicci per la successiva sostituzione dei nuovi conduttori e quindi ricalcolare le nuove tabelle di tesatura dei conduttori mantenendo i medesimi tralicci originali dell’epoca.

Dopo questa introduzione doverosa, vorrei dare un mio modesto contributo per segnalare una possibile causa o concausa del crollo del ponte Morandi a Genova.

A mio avviso le linee elettriche hanno una certa analogia con i viadotti e in particolare proprio con quello dell’ing. Morandi, realizzato su plinti in cls e travi e stralli di tenuta. Le linee elettriche non hanno le travi di collegamento ma sono realizzate solo da tralicci in acciaio su fondazioni in cls e conduttori che uniscono le campate adiacenti.

I sostegni hanno il compito di tenere sollevati i conduttori da terra in modo da mantenere le distanze verso terra a norma di legge. I conduttori vengono tesati con tiri uguali per campate equivalenti.

Normalmente i tiri dei conduttori sono i medesimi a destra e a sinistra del sostegno e in ogni caso fra campate in amarro, questo per non creare squilibri sui tiri dei sostegni e per utilizzarli all’interno del loro campo d’impiego, ma, nel caso di tiri equivalenti diversi, deve essere riverificato l’impiego dello stesso traliccio, con condizioni d’impiego diverse da progetto.

E’ successo in alcuni casi che a causa di tiri errati, il sostegno si sia piegato verso  il tiro maggiore. Il traliccio per la sua stabilità deve rimanere in verticale anche e soprattutto durante la tesatura dei conduttori e a maggior ragione nel caso di revamping si devono riutilizzare i tiri di progetto iniziale alla temperatura di tesatura, depotenziati per effetto della pretesatura. La tesatura è la parte più delicata della realizzazione di un elettrodotto.

Purtroppo per problemi di allungamento dei materiali impiegati (conduttori all-acc) il calcolo di tesatura è un calcolo molto delicato e complesso e deve essere realizzato con un programma specifico che tiene conto del cambiamento di stato dei conduttori alla diversa temperatura d’impiego.

Nel caso specifico del ponte Morandi sono stati sostituiti gli stralli con altri, immagino aventi caratteristiche diverse e quindi, sempre immagino, che sia stato rifatto il calcolo di tesatura tenendo conto delle caratteristiche dei tiri di posa del progetto iniziale dell’ing. Morandi, depotenziati per effetto dell’assetto di oltre 50 anni di utilizzo.

Se ciò non fosse stato fatto, si avrebbe avuto uno squilibrio di tiro al pilone che non è un sostegno a traliccio ma un manufatto in cls armato.

Questo poteva portare ad un piegamento del pilone verso il tiro superiore con eventuale danno per rottura in compressione e/o a trazione della parte superficiale del manufatto e con danni interni per scorrimento dell’armatura.

Inoltre la differenza dei tiri sul pilone poteva ripercuotersi  sulla campata adiacente sollevando o abbassando la travatura dove transitano i mezzi.

Questo potrebbe aver creato uno squilibrio sugli stralli portando ad una criticità dei tiri e al successivo collasso soprattutto nel caso di componenti attive negative, quali il maggior sovraccarico sulle travi dovute all’aumento del traffico e alle vibrazioni dovute al passaggio dei mezzi che si potevano sovrapporre a quelle che hanno avuto l’effetto dello squilibrio di tiro sul pilone.

La rottura di uno o più stralli crea istantaneamente e inevitabilmente un momento torcente sul plinto che lo fa avvolgere e collassare e quindi facendo crollare anche le travi di collegamento dove transitano le autovetture.

Se consideriamo che la rottura del cls del plinto porta anche ad una successiva infiltrazione degli agenti atmosferici e in particolar modo della pioggia salina che aggredisce il tutto, il collasso del plinto può avvenire anche a giorni di distanza dal revamping degli stralli.

Questo non succede sulle linee AT in quanto la struttura è in acciaio e fino a quando rimane in allungamento elastico, e non plastico, e quindi nei limiti della deformazione, può ritornare in posizione verticale.

Da quanto sopra per verificare quanto asserisco sarebbe sufficiente sapere se le tabelle di posa e i tiri utilizzati,  sono diversi da quelli di progetto dell’ing. Morandi e soprattutto se c’è stato uno squilibrio di tiro in fase di regolazione, oltre la verticalità delle torri rimaste in piedi.

La mia non vuole essere assolutamente una polemica anzi un aiuto per trovare la verità.

Ringrazio a nome di tutti gli italiani in buona fede che si trovino i responsabili

P.i. Massimo Monti

Ad integrazione dell’analisi di Massimo Monti e sempre allo scopo di fornire strumenti minimi di analisi da parte di chi non conosce la materia come noi, alleghiamo di seguito alcuni interessanti note estrapolate da un lunghissimo articolo visto su Facebook a firma di Raffaele Salomone Megna riportato di seguito ed una intervista dell’Ingegner Gabriele Camomilla, ex Direttore della Ricerca e Manutenzione di Autostrade (disponibile a questo link), dove sono spiegate le motivazioni alla base degli interventi sugli stralli della pila 11 del Ponte Morandi nel 1992

Sono un ingegnere strutturista ed il tragico crollo di un ponte autostradale non può essere certo imputabile ad avverse congiunzioni astrali oppure ad un destino cinico e baro.

Un disastro annunciato secondo molti.

Certamente ci sono delle precise responsabilità civili e penali ed è compito della magistratura individuarle e perseguirle, convinti che la giustizia farà il suo corso.

Ma al di là della responsabilità dei singoli e, ribadisco, tutte da accertare, queste sciagure avvengono in un contesto più generale, che sicuramente le favorisce, se non addirittura le determina.

E la finalità di questo articolo è quella di evidenziare proprio il pabulum economico e culturale in cui si è verificato il disastro e di denunciarlo.

Tuttavia, qualche considerazione prodromica di tipo tecnico, al fine di favorire una migliore comprensione al lettore, è necessaria.

Vorrei ricordare che ponti, viadotti, palazzi , benchè definiti comunemente immobili, in realtà sono delle macchine ed in quanto tali hanno una vita utile, durante la quale devono essere manutenute regolarmente.

Quanto detto vale sempre, ma ancor di più per le opere in calcestruzzo di cemento armato ordinario ed in cemento armato precompresso, essendo costituite dall’intimo connubio di due materiali assolutamente differenti e diversi che l’ingegno umano, grazie ad una felice intuizione, li impiega con compiti strutturali specifici e diversi. Questi materiali sono precisamente il calcestruzzo di cemento e l’acciaio in barre o cavi.

Storicamente in Italia il calcestruzzo armato ha avuto sempre una maggiore diffusione rispetto alle opere in acciaio, per una questione di costi.

Il calcestruzzo è più economico, di facile realizzazione, ma presenta uno svantaggio: ha un peso proprio molto elevato, per cui non può essere impiegato per superare in una struttura luci di una certa entità.

Per ovviare a questo limite, negli anni ‘60 si è cominciato ad usare in Italia per la costruzione delle grandi opere d’arte il cemento armato precompresso.

Il ponte autostradale di Genova è una di queste costruzioni.

Si è usato il calcestruzzo ordinario per le pile e calcestruzzo precompresso per le travi dell’impalcato.

Riccardo Morandi, ingegnere, è stato un precursore in Italia del cemento armato precompresso, registrando anche vari brevetti.

Ci sarebbe tanto da dire ma, volendo semplificare al massimo, la precompressione del calcestruzzo è sostanzialmente di due tipi : “a fili aderenti”, come i travetti precompressi che si usano nella realizzazione dei solai domestici, o a “cavi scorrevoli”, che si adoperano nelle grandi strutture.

Questi ultimi sono costituiti da trefoli di acciaio armonico inseriti all’interno di guaine e tesati con martinetti idraulici, per indurre la precompressione, quando il calcestruzzo ha raggiunto un adeguato stato di maturazione. I cavi vengono quindi bloccati sulle sezioni di testa della trave con dispositivi di ancoraggio, sistema di cui l’ing. Riccardo Morandi , come detto in precedenza, possedeva il brevetto.

La totale caduta di tensione in questi cavi di precompressione causa la perdita della capacità portante delle travi stesse, che a quel punto non sono più in grado di sostenere neanche il peso proprio.

Con questo non voglio certo affermare che i ponti, i viadotti, etc, realizzati con questa tecnologia siano pericolosi, ma che necessitano di un continuo monitoraggio e che il loro impiego deve essere pedissequamente conforme alle ipotesi progettuali originarie ( portata di traffico, peso dei veicoli, effetto dinamico degli stessi, etc.).

Ictu oculi, dalle immagini trasmesse dai vari telegiornali, credo che il motivo del perimento del ponte autostradale di Genova possa essere individuato nella perdita di tensione dei cavi di precompressione , conseguente ad un cedimento dei dispositivi di bloccaggio degli stessi a seguito di fenomeni di fatica.

le opere di ingegneria civile vanno regolarmente manutenute con interventi ordinari e , se necessario , anche con interventi straordinari, perché anch’esse sono delle macchine.

In generale l’ordinaria manutenzione spetta, salvo diversa pattuizione, a chi utilizza l’opera, secondo il principio “cuius commoda et eius incommoda”, mentre la manutenzione straordinaria spetta al proprietario, poiché costituita da interventi di tale portata che, se non eseguiti, inficerebbero il regolare godimento del bene.

Ma torniamo alla finalità primigenia di questo articolo che non è certo quella di discettare di ingegneria civile, ma di evidenziare le scelte economiche che nel tempo hanno poi determinato il disastro a Genova.

La nostra rete autostradale è in massima parte di proprietà dell’ANAS e quindi dello stato italiano e quindi di noi tutti.

Tuttavia nel 1999 la Società Autostrade , che gestiva la rete autostradale italiana, fu privatizzata. Passò dal gruppo IRI a privati sino a diventare nel 2002 Autostrade per l’Italia S.p.a. del gruppo Benetton.

Perchè mai?

Dovevamo entrare in Europa e quindi bisognava privatizzare per ridurre il debito pubblico.

Poi il mantra del pensiero neoliberista fece il resto: bisognava privatizzare, perché il privato è più efficiente del pubblico.

Ma era vero? Per la gestione delle autostrade italiane certamente no.

L’azienda dell’IRI era un vero e proprio gioiello e produceva anche tanti utili.

Nel 1990 Società Autostrade introduce il Telepass, il primo sistema al mondo per il pagamento dinamico su larga scala del pedaggio che conta oggi oltre 7 milioni di clienti.

Nel 1992 il gruppo partecipa al primo progetto di autostrada a pedaggio nel Regno Unito, la M6 Toll di Birmingham, che entrerà in esercizio nel 2003.

Nel 1995 la Società realizza la prima autostrada a pedaggio, finanziata con risorse private, negli Stati Uniti, la Dulles Greenway in Virginia.

Come si può facilmente comprendere era una società ai vertici mondiali.

Racconta Sergio Rizzo sul Corriere della Sera: “Dal 1999, anno della privatizzazione della società Autostrade, al 2013, i pedaggi sono saliti in media del 65,9 per cento a fronte di un’inflazione del 37,4 per cento. Quasi il doppio, mandando in orbita i profitti della principale concessionaria. Fra il 2000, primo anno successivo alla privatizzazione, e il 2012, ultimo anno di cui è disponibile il bilancio annuale, gli utili netti di Autostrade spa (fino al 2002) e di Autostrade per l’Italia (dal 2003) hanno toccato 6 miliardi 852 milioni 902 mila euro. In valuta 2012, fanno 7 miliardi 688 milioni 395 mila euro. Ossia, ben 4,2 miliardi in più rispetto ai 3,4 (sempre in euro 2012) incassati dallo Stato per la cessione delle quote di maggioranza relativa al gruppo guidato dalla famiglia Benetton”. Nessuno ha mai smentito queste dichiarazioni.

I più convinti neoliberisti potrebbero dire, però, che se i pedaggi sono aumentati però il servizio è migliorato.

Neanche questo è vero.

Sempre Sergio Rizzo sul Corriere della Sera rileva: “Ci limitiamo a ricordare che nel 1970 l’Italia era in Europa il Paese con la maggiore dotazione autostradale, seconda solo alla Germania, e oggi ha una rete pari alla metà di quella spagnola. Questo nonostante 6 mila veicoli per chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia…….”.

In conclusione, la rete resta sostanzialmente quella del 1999, sempre più vetusta, ma i pedaggi ogni anno aumentano più dell’inflazione. Con grande benefizio e giubilo dei gestori privati.

Anche Gentiloni non si è sottratto alla tradizione governativa ed ha fatto una bella Befana ai gestori autostradali con ulteriori aumenti dei pedaggi deliberati per il 2018.

Ci troviamo davanti ad un vero e proprio paradosso tutto italiano.

Diminuiscono i costi di gestione, poiché aumenta l’automazione, sono ormai scomparsi i casellanti, ed il 70% degli utenti usa Telepass.

Il traffico è cresciuto nello scorso anno del 2,3% ma, inspiegabilmente, gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro nel 2017 contro una media annuale di 2,4 miliardi che si era registrata nel periodo 2008-2015.

Ancora una volta “piani fantasma d’investimento” e di “mitigazione ambientale” giustificano l’autorizzazione governativa degli aumenti tariffari.

Siamo quindi alle solite: si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite.

Anche la concorrenza non è poi così buona , quando può ledere gli interessi di amici.

Il Governo Gentiloni ha addirittura modificato il “Codice degli Appalti” stabilendo che le gare per i lavori autostradali possono essere eseguite dalle stesse concessionarie sino al limite del 40% ( come era previsto nel regime transitorio) dell’importo di appalto e non del venti 20% come indicato originariamente nel Codice.

Questo è il pabulum in cui è avvenuto il disastro di Genova.

Questo sistema non può reggere ulteriormente.

Così, mentre la Cina pensa alla costruzione della “nuova via della seta”, che sarà la più grande opera infrastrutturale dei nostri giorni, per il numero dei paesi coinvolti e per le opere da edificare, l’Europa, continente delle meraviglie e dello stupore, è bloccata nel gelo dell’austerità, per cui in Italia, ma anche in Francia e Germania, le opere pubbliche che abbiamo vanno in malora.

Che Rinascimento avremmo avuto con tale logica?

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