Sergio Ferraris

Comunità energetiche: intervista a Sergio Ferraris

Comunità energetiche. Riportiamo l’interessante intervista di Andrea degl’Innocenti di “Italia che Cambia” a Sergio Ferraris, direttore di QualEnergia.

Che cosa sono le comunità energetiche rinnovabili? Che ruolo possono avere nella transizione energetica? E a che punto siamo nella loro implementazione a circa due anni dall’introduzione?

La guerra in Ucraina sta portando il tema dell’energia violentemente al centro delle agende politiche dei paesi di tutto il mondo. Fra i vari modi in cui possiamo produrre e consumare energia localmente da fonti pulite, ce n’è uno particolarmente interessante: le Comunità energetiche rinnovabili (Cer).

Introdotte nel 2019 nel pacchetto UE “Energia pulita per tutti gli europei”, sono state recepite qualche mese dopo, in via sperimentale, anche nel nostro paese. Le Cer consistono nella possibilità di cittadini e cittadine di mettersi assieme per produrre energia da fonti rinnovabili.

COMUNITÀ ENERGETICHE, CHE COSA SONO?

Le comunità energetiche, ci spiega Ferraris, «sono la possibilità di cittadini di mettersi assieme per produrre, consumare o cedere energia da fonti rinnovabili. Le fonti di produzione possono essere le più diverse. Fotovoltaico, eolico, piccolo idroelettrico, sebbene quelle che si svilupperanno di più, plausibilmente, sono il fotovoltaico sui tetti, in aree dismesse, sui condomini». Sembra un concetto di buon senso, ma prima del recepimento della direttiva in Italia erano formalmente vietate. Per Ferraris «si tratta del superamento di un gap storico che ha l’Italia». 

Nei fatti, alcune comunità energetiche esistevano già. Sopravvissute alla nazionalizzazione del 1962. «Sono perlopiù impianti che non furono ceduti all’Enel perché ubicati in zone dell’arco alpino, non profittevoli all’allaccio. Sono sopravvissute per anni sottotraccia, poi hanno vissuto un maggiore splendore quando è arrivata la spinta delle rinnovabili». Una delle più conosciute è la comunità energetica nel comune di Campo Tures, in Alto Adige. Grazie a una rete locale alimentata dall’idroelettrico abbatte la bolletta dei propri cittadini di circa il 40-50%. 

Inoltre, ci spiega Ferraris, «avendo reti isolate e autonome le comunità energetiche sono rimaste accese nel grande blackout del 2003». Adesso, grazie alla nuova normativa, si è aperta una nuova fase che permette in maniera facile e piuttosto efficiente di realizzare nuove comunità energetiche. Cittadini, amministrazioni e imprese possono consociarsi per produrre energia pulita. «Nei prossimi anni, si spera, ne vedremo nascere moltissime: uno studio di Enel-Ambrosetti prevede 35mila comunità energetiche nel nostro paese entro il 2030».

DALL’IMPEGNO INDIVIDUALE A QUELLO COLLETTIVO

Uno degli aspetti più significativi di questa novità è il passaggio dall’impegno individuale a quello collettivo. «Veniamo da oltre trent’anni di thatcherismo” spiega Ferraris. “Nel corso dei quali l’imperativo sociologico è stato “la società non esiste, esiste l’individuo”. L’individualismo in questo periodo storico è stato molto forte, anche in Italia e a sinistra. Mentre si sono persi il senso e il valore dei beni collettivi». 

Questo approccio si rispecchia anche nei movimenti ecologisti: «Anche sulle questioni ambientali c’è stato un martellamento sulle soluzioni individuali. Ma alcuni problemi sono risolvibili solo dal punto di vista collettivo e politico. Ad esempio, io posso fare tutta la migliore differenziata che esiste. Ma se la politica non impone delle leggi precise sugli imballaggi e sull’uso della plastica, la mia attività di differenziata sarà depotenziata e secondaria».

In quest’ottica, la sfida delle comunità energetiche è anche quella di rimettere la comunità, la società, al centro della transizione ecologica. Con tutte le difficoltà del caso dovute alla disabitudine alla cooperazione e alla scarsa diffusione di metodi decisionali e sistemi di governance collaborativi. Ma anche con nuove opportunità. «Il lavoro di ricucitura sociale da fare sui territori per mettere assieme i soggetti delle future comunità energetiche sarà importante. Ce lo dimostra l’utilizzo ben al di sotto delle potenzialità del Bonus 110 per via della difficoltà dei condomini nel mettersi d’accordo».

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«Eppure – prosegue Ferraris – se ben sfruttata questa è anche un’enorme occasione di coesione. Come dimostra una recente esperienza di Legambiente a Napoli. Nel capoluogo partenopeo la creazione di una delle prime comunità energetiche italiane è stata recepita dai cittadini come un momento di socializzazione e coesione sociale». 

In altre parole le Comunità energetiche, «unendo aspetti comunitari e aspetti tecnologici, possono essere un punto di saldatura fra le problematiche sociali e quelle ecologiche. E aiutarci a superare la famosa sindrome nimby (not in my back yard, non nel mio giardino) verso le rinnovabili». Un altro aspetto potenzialmente interessante, secondo Ferraris, riguarda il mondo delle imprese: «In futuro vedremo dei cluster di impresa locale che si autoproducono l’energia. Penso ai vari compartimenti del mobile in Veneto, della ceramica di Sassuolo, ad esempio». 

ALCUNI ESEMPI DALL’ESTERO

In altri paesi esistono molti esempi, in cui le Cer sono state fonte di collaborazione e coesione sociale, da cui trarre spunto. Sergio Ferraris ha approfondito la questione in un articolo per La nuova ecologia. «A Londra da anni i cittadini si riuniscono e fanno pressione sulle istituzioni per avere in affidamento tetti, stazioni metro, scuole e altre superfici residuali non utilizzate per costituire le proprie comunità energetiche. A Los Angeles una comunità energetica ha unito la produzione dell’energia alla lotta all’inquinamento grazie all’utilizzo di tecnologie innovative». 

Per non parlare di quella che forse è stata la prima comunità energetica al mondo, in Danimarca. «Nel 1974 a Tvind un gruppo di cittadini riunitosi per lottare contro il nucleare, ha autocostruito una pala eolica da 2 megawatt. Per 15 anni è stata la pala eolica più potente del mondo. Hanno usato un design innovativo, che poi è diventato lo standard per l’intero paese. E hanno deciso di non brevettarlo, in modo che potesse essere riutilizzato e diventare un bene collettivo. Con questa esperienza hanno stoppato il nucleare in Danimarca».

La forza delle comunità energetiche è anche quella di potersi adattare al contesto particolare in cui operano. «È qui che sta anche il successo. Ad esempio, delle oltre 6-700 comunità energetiche presenti in Scozia, in zone con molto vento e problemi di povertà e disoccupazione hanno preso piede alcuni progetti basati su pale eoliche con tre direttive. La lotta contro la povertà (quindi prezzi calmierati dell’energia elettrica distribuita all’interno della comunità). La lotta alla disoccupazione (attraverso l’offerta di lavoro all’interno della comunità energetica stessa). E l’opportunità di investimento (per chi invece decide di metterci i soldi e vuole un rendimento legato a una dimensione etica)». 

In Inghilterra invece, le comunità energetiche sono state addirittura un modo per “hackerare” le politiche liberiste del Governo, piegandole alle necessità dei cittadini. «A Brixton  il fotovoltaico 5-6 anni fa godeva di forti incentivi. Mentre il Governo non sosteneva allo stesso modo l’efficienza energetica degli edifici. Perciò una comunità energetica ha coperto i tetti di pannelli e usato i proventi del fotovoltaico per ristrutturare a livello energetico le abitazioni delle persone più disagiate».

ASPETTI TECNICI

Come funzionano le comunità energetiche nella pratica? Ci occuperemo in maniera più specifica dei passaggi necessari a creare una comunità energetica in un prossimo articolo; intanto Ferraris ci ricorda che «c’è un iter semplificato e poco costoso», ma «bisogna comunque affidarsi a dei professionisti che la organizzino».

Al momento la normativa che regola le Cer è in fase sperimentale, come previsto dall’Europa, e alcuni aspetti sono migliorabili. Ad esempio c’è il limite della cabina di trasformazione. Per cui possono far parte della stessa comunità energetica solo i titolari di connessioni su rete elettriche di bassa tensione alimentate dalla medesima cabina di trasformazione di media/bassa tensione. Si tratta di «un limite tecnologico superabile. Ma che al momento serve a identificare dove avvengono le immissioni di energia, visto che una volta in rete gli elettroni sono indistinguibili dagli altri». 

Un altro limite è quello dei 100 kilowatt di produzione massima. «Vanno bene se si tratta di reti di cittadini, ma diventano limitanti per lo sviluppo delle comunità energetiche tra imprese». 

QUALE RUOLO NELLA TRANSIZIONE?

Le comunità energetiche sono un’alternativa ai grandi impianti industriali di energie rinnovabili? Secondo Ferraris si tratta di un falso dilemma. «Abbiamo di fronte una sfida epocale. In 7-8 anni dobbiamo attuare una enorme riduzione delle emissioni, che fin qui sono sempre salite. Per cui serve tutto. Servono le comunità energetiche, ma anche le pale eoliche in zone non paesaggistiche, i campi eolici galleggianti. Serve il pannellino fotovoltaico sul tetto, così come gli impianti a terra, e così via». 

L’Italia è la seconda manifattura d’Europa e «l’attività manifatturiera ha un bilancio energetico pesante. Auspicabilmente dovremmo decrescere, ma non possiamo farlo di colpo. Se va bene manterremo gli stessi livelli di consumo per i prossimi 20-25 anni, prima di scendere. Perciò dobbiamo attuare una riconversione enorme verso la produzione di energia da fonti rinnovabili. A livello mondiale dipendiamo dalle fonti fossili ancora per l’80%». 

In questo contesto, le comunità energetiche rinnovabili possono aiutare i cittadini a uscire da un ruolo passivo. E diventare attori consapevoli, partecipi e entusiasti di questo enorme processo su scala globale. 

Link articolo originale “Italia che Cambia”

Redazione

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