La lunga metamorfosi di ENEA: dal nucleare al “Biorestauro”, attraverso rinnovabili ed efficienza energetica

Una storia che vien da lontano quella di ENEA, nata nel 1952 con il nome di CNRN poi divenuto CNEL nel 1960, per acquisire e diffondere conoscenze scientifiche sulle applicazioni pacifiche dell’energia nucleare, divenuta nel suo lungo percorso di oltre 60 anni di storia, un centro di eccellenza e di competenza nel sempre più composito universo della sostenibilità.

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Un percorso nel quale, soprattutto dopo il disastro nucleare alla Centrale di Chernobyl del 26 aprile 1986, l’ente che quattro anni prima aveva assunto dal CNEL il nome di “Energia Nucleare ed Energie Alternative“, iniziò una progressiva metamorfosi dalla ricerca in ambito nucleare le energie rinnovabili, le nuove eco tecnologie e l’ambiente. A suggellare questa profonda metamorfosi di ENEA, che nel 1991 aveva rimodulato il proprio acronimo in “Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente” anche la nascita di sempre nuovi e vasti scenari ed ambiti di intervento.

Uno dei più originali ambiti di attività di ENEA, dalla metà degli anni ’90, è quello che opera nel campo dell’applicazione, dell’uso e del trasferimento di ricerche ed innovazioni alla conoscenza, alla conservazione, alla tutela, al restauro e alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. Un settore di attività quello di ENEA che si progressivamente arricchito di nuovi sviluppi, dai sensori agli “scudi antisismici” che proteggono i bronzi di Riace, passando per le tecnologie per la visione dei “pentimenti” dei pittori e di immagini “nascoste” nei quadri, dai droni per rilievi e indagini su siti e manufatti archeologici, alla valutazione dei rischi idrogeologici, ambientali e antropici, dalla realtà virtuale alla modellazione e restituzione 3D. Questo proliferare di attività ha portato allo sviluppo all’interno di ENEA di uno dei più vivaci e interessanti poli tecnologici per i beni culturali, affidato al biologo, Professor Carmine Marinucci. Uno dei più affascinanti ambiti applicativi di avanguardia del polo ENEA è indubbiamente quello delle tecniche di biorestauro. Una disciplina quella del biorestauro, che sfruttando le proprietà dei batteri, è in grado di dare risposte di grande valenza nel campo della conservazione e del recupero dei beni culturali, e nello studio del deterioramento causato da fattori organici e inorganici, in particolare microrganismi e circostanze ambientali evitando il ricorso a prodotti chimici, tossici per i restauratori e aggressivi per le opere. Le nuove frontiere della ricerca in questa direzione hanno dimostrato come l’utilizzo dei batteri possa portare a livelli qualitativi e di affidabilità anche molto superiori a quello garantito finora dai solventi convenzionali e dai tradizionali metodi di restauro, proponendosi come ottima soluzione, soprattutto nel caso che questi ultimi si rivelino inefficaci o pericolosi sia per l’integrità dell’opera d’arte ma anche per la salute stessa degli operatori che si occupano del restauro. Molte le opere restaurate con successo con questa innovativa metodica, già utilizzata con successo su statue, monumenti e tavole dei giardini e dei Musei Vaticani, dei marmi della Galleria Nazionale di Arte Moderna, di affreschi e statue della Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese, dei dipinti murali della Casina Farnese al Palatino. Sono ben 500 le “legioni” di batteri e funghi della collezione di ceppi Enea-Lilith conservati a -80 °C nei laboratori di ENEA Casaccia dal gruppo di Microbiologia coordinato dalla dottoressa Anna Rosa Sprocati.Crediti immagine: Enea / Particolare dell’architrave della porta della loggia inferiore della Casina Farnese; prima della biopulitura (a), dopo la biopulitura (b) e a restauro finito (c).

Si tratta di un autentico esercito di micro-restauratori in grado di ripulire le opere nutrendosi delle scorie da rimuovere e con cui è possibile intervenire “su misura” in base ai materiali (dipinti, affreschi, carta, pergamena, pietra o legno) e alle sostanze da rimuovere (colle animali e sintetiche, resine, idrocarburi, oli, gessi o carbonati). Una biotecnologia tutta Made in Italy per i beni culturali, nata nel paese che detiene la maggioranza del patrimonio artistico e culturale del mondo e che si presenta con bassi costi, atossicità, compatibilità con i materiali costitutivi e l’ambiente secondo una strategia di conservazione più sostenibile, che si trasforma in brevetto essendo capace di sviluppare anche formazione professionale altamente qualificata.
Davvero un formidabile campo d’azione quello dei beni culturali per queste nuove tecnologie, dove l’Italia può davvero trovare i suoi autentici “giacimenti”, operando meccanicamente sul piano della tutela e conservazione del bene ma anche e soprattutto trasferendo e comunicando innovazione, agendo come una linfa vitale capace di pervadere e raggiungere ogni area del nostro paese ricca di testimonianze culturali e consentendone una autentica e piena valorizzazione nel segno della sostenibilità, della piena occupazione attraverso la creazione di un esteso indotto economico. Come sappiamo infatti l’Italia è al primo posto nel mondo per quantità di beni Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, in un settore che già oggi da lavoro a un milione e mezzo di persone, corrispondente al 6,2 per cento del totale degli occupati, generando un valore complessivo di 214 miliardi di euro pari al 15,3 per cento del nostro Pil. Imponenti cifre queste del tutto sottodimensionate rispetto alle potenzialità di un sistema di offerta culturale italiano, pienamente efficiente, funzionale, fruibile e sostenibile.

Sauro Secci

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