Confluenze – Rassegna Nazionale di Poesia della Città di Arezzo
Il cambiamento climatico e l’era degli iperoggetti
Un importante contributo alla riflessione di Giorgio Mottironi, CoFounder & CSO di ENER2CROWD
Vi è una consolidata tendenza nelle minacce che dobbiamo affrontare, o che si affacciano nelle nostre vite più o meno improvvisamente, tendenza che negli ultimi venti anni si è andata a rafforzare: quella di non poter o non saper riuscire ad identificare il nemico. Dinamica questa che accelererà la fine della nostra civiltà se continueremo a costruirla solo con avidità di vita
Che siano incredibilmente grandi o incredibilmente piccole, le minacce a persone, Stati, continenti che hanno caratterizzato il nuovo millennio sono praticamente tutte legate da una caratteristiche comune: sono oggetti scientificamente o fenomenologicamente identificati ma per noi impossibili da identificare come il nostro DNA vorrebbe, per permetterci di agire.
Non è un risultato casuale. Da decenni anche lo scontro sociale si compone tra persone e sovra-entità non ben identificabili come “i mercati” o “la finanza”, o “la corruzione”, o “l’incapacità”, o “i poteri forti”, in cui viviamo, di cui sentiamo la presenza e le conseguenze sulle nostre vite, ma che per questioni di convenienza dei meno, rimangono sempre senza un nome e un cognome. Senza una forma fisica. Addirittura nell’ultima crisi finanziaria del 2008-09 tutto è avvenuto senza che vi fosse un evento preciso come scatenante. Non si sa bene quando e dove è iniziata ma quando è arrivata è stata devastante.
Solo un’ombra che si allunga sul nostro presente, e ben oltre, fino a determinare il nostro futuro. Ma se c’è un’ombra, allora ci dovrebbe essere un responsabile. Ed un responsabile c’è sempre, e altrettanto di solito, ha sembianze antropomorfe.
E’ solo che per noi, uscire dalla caverna, è troppo spaventoso a causa stessa del bagliore che stordirebbe la nostra vista, ci raccontiamo. Quando in realtà ciò che più ci spaventa è forse proprio lo specchio che ci attende lì fuori e che punterebbe sulle nostre scelte, su di noi, la ragione, la colpa di tutto. Ma questa è un’altra storia.
Quella di oggi è la storia di queste minacce molto percettibili, ma poco definibili. La storia degli “iperoggetti”.
“Tanto per incominciare gli “iperoggetti” si producono in un tipo di minaccia differente, che si rappresenta in noi con una sensazione di ansia e angoscia”
Esatto, perché fintanto che non riusciamo a determinare la minaccia, non si riesce a stimolare quella forma di emozione che con più prepotenza ci porterebbe all’azione. E’ la stessa situazione in cui si ritrova il bambino (o ancora noi) quando al buio: la paura del buio è l’angoscia di una presenza ignota. Qualcosa che c’è (o forse no), che non conosciamo o che non riconosciamo, perché non sappiamo determinarla tramite la vista.
E come si interrompe il pianto angosciato e angosciante del bambino? Con uno schiaffo. Un’offesa che è una minaccia ben determinabile. Ecco, lo schiaffo è ciò che rappresentano i fenomeni violenti in cui si manifesta più o meno frequentemente un iperoggetto: le singole e continue morti dei malati di coronavirus, così come le innumerevoli morti o grandi tragedie che saltuariamente, ma sempre più di frequente, si verificano come conseguenze di fenomeni atmosferici (alluvioni, inondazioni, incendi).
Se ci fate caso è proprio in concomitanza di questi momenti, e sull’onda emotiva che questi momenti gonfiano, che si cerca di concretizzare l’azione. Perché si concretizza la paura. Tutto ciò che c’è in mezzo, la comunicazione, gli indicatori, è tutto sbagliato (ma, ancora una volta, questa è un’altra storia da approfondire in altro capitolo).
La definizione di iperoggetto ce la dà il filosofo inglese Timothy Morton, ed è perfettamente calzante sia per il climate change sia per una pandemia: un iperoggetto è un fenomeno che sfugge alla nostra comprensione ma in cui trascorriamo le nostre vite. Talmente grande e talmente assorbente da non capire che ci viviamo dentro. Una vera e propria bolla di nebbia cognitiva che dimostra come la prossimità spaziale e geometrica non sia sufficiente se non vi è una prossimità emotiva, e se questa non è a sua volta ben determinabile.
“Il perché si verifichi, il perché esista, sono superati dalla sua manifestazione stessa. L’unica in grado di toccarci emotivamente”
Le nuove minacce sono indeterminate, finché non ci colpiscono. Distanti finché non manifestano nella vita di ciascun singolo la loro vicinanza tramite gli effetti dalla loro esistenza. Sono subdole perché in questo modo noi continuiamo ad agire compiendo le stesse ripetitive scelte che le alimentano, che le ingigantiscono, che le provocano.
“Prossimità spaziale continua, ma prossimità emotiva intermittente diseducano la nostra capacità di risposta”
Timothy Morton, in virtù di tali considerazioni che rappresentano un sonno da cui l’uomo non sembra riuscirsi a risvegliare, in attesa di chissà quale soluzione miracolosa o salvatore fiabesco, afferma che la fine della nostra presenza su questo pianeta ha avuto inizio con l’inizio dell’Antropocene stesso (il termine indica l’epoca geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Il primo a introdurre tale principio, ancora in fase di elaborazione, fu un geologo italiano, Antonio Stoppani, il quale nel 1873 affermò che l’uomo era una forza tellurica.
E che non è detto che l’estinzione di una specie si debba necessariamente ricondurre ad un evento improvviso e drammatico, come nel caso del meteorite e dei dinosauri. A volte la fine di una specie, o di una civiltà, si realizza lentamente nel tempo, in parallelo al potenziamento delle velleità stesse di quella specie o civiltà, ed in parallelo all’erosione delle condizioni ambientali, sociali (ed economiche) per la sua sopravvivenza.
D’altronde noi siamo la specie che ha dimostrato di poter durare di meno di tutte le altre specie animali. I nostri vari cugini si sono già estinti. Certo per caratteristiche evolutive che non ne garantivano la sopravvivenza, sia rispetto alle condizioni contingenti sia rispetto al loro rapido mutare.
Ma noi stiamo facendo di tutto per dimenticarci quanto siamo fragili rispetto alle ere geologiche, e per costruire noi stessi delle condizioni in cui non sarà possibile sopravvivere. Concetto ancor più evidente se si pensa ai ritmi di crescita demografici, comparandoli con le dinamiche di crescita economica e con i ritmi di sfruttamento delle risorse.
Civiltà come quella Egizia, Greca, Romana, quella dei Maya e degli Aztechi, sono sparite lentamente consumate dal loro stesso status: o perché sono mutate loro in maniera non allineata alle condizioni esterne, o perché sono mutate le condizioni esterne rispetto a loro. Mentre loro erano concentrate sulla stessa cosa su cui siamo concentrati noi: l’avidità di vita.
Già Lucrezio, circa 2.000 anni fa, nel “De Rerum Natura”, ammoniva l’uomo ricordandogli delle sue due più grandi malattie: la noia e il velleitarismo. Ovvero l’incapacità di sentirsi appagato e soddisfatto da ciò che ha, ed il desiderio di sempre maggior potenza. Lucrezio ci redarguiva “poeticamente”, parlando in un appetito di vita vorace, ed di una sete di vita insaziabile. Ma ci ammoniva. Già 2.000 anni fa.
Noi saremo probabilmente la prima civiltà in grado di poter assistere consapevolmente alla propria fine, attraverso scelte che saranno state abbondantemente dibattute a livello politico e sociale, ben archiviate e quindi facilmente “memorabili”. Moriranno molte più persone ogni anno: per epidemie, per sconvolgimenti dovuti ai cambiamenti climatici, per gli scontri che avverranno tra le popolazioni per accaparrarsi delle porzioni di pianeta su cui sia possibile assicurarsi un’esistenza dignitosa (ricordate le recenti marce di migranti dal Centro America verso gli Stati Uniti).
La verità è che i fenomeni che abbiamo innescato con il nostro modo di voler vivere, estremamente grandi o estremamente piccoli che siano, rappresentano nuove minacce a cui il nostro stesso DNA non sa come reagire istintivamente, e rispetto ai quali solo un’adeguata preparazione cognitiva ed evoluzione culturale (nuove conoscenze -> nuovi valori -> nuova etica -> nuova società -> nuova politica -> nuova economia) potranno salvarci.
Oggi assistiamo a nuove minacce e ad una nuova morte che abbiamo noi stessi reso più potenti ed in grado di raggiungerci anche al di fuori della natura stessa. Mentre dovremmo solo ricordarci che la natura è la nostra casa, e che è nella natura ed all’interno delle sue regole che possiamo sentirci a casa.
Cover Photo by Kelly Sikkema on Unsplash
[…] Leggi anche Il cambiamento climatico e l’era degli iperoggetti […]
[…] Leggi anche Il cambiamento climatico e l’era degli iperoggetti di Giorgio Mottironi […]
[…] Leggi anche Il cambiamento climatico e l’era degli iperoggetti […]