Disintossicarsi dagli imballaggi inutili! Iniziando dalla plastica!

Una  ricerca di Green Alliance UK –  riportata anche da alcuni siti on line –  rischia di creare nuove tensioni tra negazionisti e supporter della tesi dell’impatto della plastica nell’emergenza climatica e inquinamento ambientale che stiamo vivendo, a causa dei prodotti monouso come gli imballaggi –  che in effetti costituiscono un problema noto in tutto il mondo compreso lo stomaco dei cetacei.

        {tweetme} #plasticamonouso #improntaco2 “Disintossicarsi dagli imballaggi inutili! Iniziando dalla plastica!” {/tweetme}

La tesi è: “non sempre abbandonare gli imballaggi in plastica per altre soluzioni, produce un beneficio per l’ambiente”. Le alternative possono essere peggiori certo, ma dovrebbe essere la scienza  a dirlo e la politica a normarlo, non le multinazionali e  le loro lobbies come le associazioni di categoria secondo le schema per cui ognuno protegge  solo se stesso, alla faccia della economia circolare.

Green Alliance UK è associazione ambientalista molto ben strutturata, nota tra attivisti, mecenati, imprese della sostenibilità, governi della EU. Attiva  da anni, produce reports sui vari temi ambientali come questo “Plastic promises”, scaricabile anche in calce all’articolo, con sottotitolo:”What the grocery sector is really doing about packaging: “Promesse della plastica, cosa sta realmente facendo il settore della distribuzione alimentare riguardo al problema degli imballaggi“

La cattiva interpretazione che traspare da qualche traduzione è: “sostituire la plastica monouso con altri materiali è ancor meno sostenibile” come dire inutili gli sforzi di trovare soluzioni alternative;  quella che dovrebbe invece passare è che non è bandendo la plastica e sostituendo con altri materiali senza una valutazione a 360° del loro ciclo vitale, che di punto in bianco il Pianeta migliora il suo impattoEliminare per primi gli immensi  sprechi dovrebbe essere il mantra di tutti (88 miliardi di kg di spreco alimentare ogni anno secondo le EU stessa in Europa); quindi si dovrebbe agire confrontando l’efficienza dell’imballaggio nella scala delle sue priorità:

  • A che serve?
  • Per quanto a lungo deve proteggere?
  • Contamina il contenuto?
  • Quanto vale rapporto al prodotto inserito: come peso, come ingombro, come impronta di carbonio?.

Chi oggi, non obbliga a fornire gli strumenti per permettere questa valutazione da parte degli stessi consumatori, è ancora una volta l’autorità pubblica: EU in testa.

Tornando dunque alla ricerca in oggetto. Per i direttori di alcune grandi catene di supermercati intervistati in UK si parte da un dato statistico: “Il 48% dei loro clienti tra 18-34 anni hanno affermato di aver cambiato marca di cibo a causa del loro imballaggi mentre solo il 15% era di clienti over 55”.

La loro conclusione non si sofferma sulla grande differenza di comportamento data dall’età degli acquirenti, che invece a me pare particolarmente significativa, ma su un punto che è comunque critico,  poco discusso: è la reazione  della maggior parte dei “normali” utenti  circa il modo con cui intendono date il loro contributo alla riduzione dell’impatto ambientale. Gli imballaggi di plastica monouso restano – secondo gli analisti –  il pericolo nemico numero uno nella percezione del problema di come agire. Nella scelta di “cosa mangio oggi” ci si imbatte sempre e subito nell’imballaggio: se esso “sembra”  plastica, lo scarto per molti giovani (48% secondo il report) avviene a priori.

Nel report citando le risposte di alcuni direttori di supermercati, si legge: “A lot more consumers are saying that they are already avoiding what they understand as single use plastics…..the brands report that decisions to switch away from plastic are often made without considering the environmental impact of the substitute materials chosen, or whether or not there is adequate collection and treatment infrastructure in place for them” – tradotto: “molti consumatori dicono che evitano quello che percepiscono sia un materiale plastico monouso…Così gli stessi brand evidenziano “che la decisione dei consumatori sono spesso fatte senza considerare l’impatto ambientale del sostituto scelto come alternativo al vecchio brand o se c’è un adeguato sistema di smistamento e trattamento in atto per questi ritenuti più inquinanti (in plastica).

Vero; ma perché forse non è spiegato bene o non viene dato al consumatore la possibilità di farlo?. Questo comportamento non é solo british; è un dato di fatto registrato anche in Italia, forse ovunque.

Con quale conseguenza? Spesso con nessun cambiamento di abitudine (per es. approfittare delle offerte sugli scaffali per comprare, anche se ne hai ancora in frigo); nessuna riduzione dello spreco potenziale (per es. comprare una vaschetta pre-saldata seppure in bioplastica, per le poche fette di prosciutto che occupano 1/5 dello spazio dell’imballaggio e che comunque si seccano nel frigo una volta aperto); nessuna difficoltà a fare una scelta diversa dell’imballo plasticoso, purché costi uguale a prima ( però le plastiche sintetiche usate ad oggi negli imballaggi alimentari sono il materiale che costa meno in assoluto, con i conseguenti riflessi sul prezzo, se usi altro).

Stiamo attenti alla confezione ma poi quasi mai viene fatta la domanda che secondo me è fondamentale: “scusi, mi sa dire dove leggo sul packaging la misura dell’impatto ambientale del prodotto e del suo imballo?”.

Dannare la plastica a priori rischia di essere più una specie di massaggio dell’anima dell’individuo che una risposta o proposta concreta verso il cambiamento di un modo di pensare e agire. In molti casi  poi, alla prova dei fatti, la scelta operata non è neppure così efficiente: quando l’imballaggio prescelto come supposto “green” non si rileva tale, porta al calo di certezze, imbarazzo e spesso quella pericolosa disillusione sulla serietà delle imprese e della politica che le norma o le dovrebbe normare.

Se poi il consumatore “impegnato” viene a sapere che fare una scelta green è assolutamente inutile perché tanto, dopo, il rifiuto  raccolto e separato da te con cura viene mescolato assieme all’indifferenziato e bruciato…. allora ci si domanda cosa ci si impegna a fare e si torna al passato – leggi caso Firenze.

Il consumatore però, anche se non esente da sprechi, dice e agisce spesso in buona fede, che è ignoranza sì, ma non ci sono insegnanti se non il web. Il problema più complesso sta nel ragionamento, non nell’azione.

Il punto dolente è  infatti la mancanza delle informazioni necessarie riportate sugli imballaggi per consentire di compiere una scelta che non deve essere centrata sui materiali ma sulla loro impronta ambientale; questa mancanza non facilita la critica e invece induce a errori pericolosi, quando essi diventano di massa.

Le sensazioni ricavate dal solo guardare o dal toccare un imballaggio sono anche diverse dalla realtà; questo l’industria lo sa bene, gli esperti di marketing soprattutto: come la plastica che sembra carta (colore, e grana simulati); la carta fuori ma spalmata con un impalpabile straterello di plastica dentro; la plastica non più lucida, granulosa che imita l’effetto “artigianale” o la bioplastica; la plastica che è degradabile ma non “bio”degradabile: grazie all’azione del sole si polverizza ma resta forever dove atterra, un parco pubblico, un sentiero di montagna ecc (oxo-plastica); il pacchetto di plastica multistrato composto da plastiche diverse che complicano la qualità del rigenerato (plastomix); l’imballaggio in cartone degli acquisti on line, biodegradabile e rigenerabile ma che utilizza fibra vergine di alberi tagliati chissà dove, magari non regolamentate, mentre la carta da toilette al contrario è totalmente da riciclo ma colorata, per sembrare tutta uguale nel tempo. Il bestiario è ricco, la norma semplice, perché inesistente. Da questa ricerca emerge che l’imballaggio è purtroppo quello strumento indispensabile per la civiltà del millennio, che non importa come è fatto e se funziona ma solo di cosa è fatto.

Quindi se la bottiglia di vetro viene comprata al supermercato come monouso sarà certamente più impattante se gettata subito ma se la stessa bottiglia una volta svuotata del suo contenuto diventa un mezzo per riempire i vuoti al fontanello pubblico (come nella foto seguente) allora il suo ammortamento in termini di impronta ambientale diventa assai più sostenibile. Mentre se facciamo la stessa cosa con una bottiglia di plastica ,la vita della stessa sarà assai inferiore a quella di vetro perché la plastica è più fragile strutturalmente perché perde nel tempo i suoi plasticizzanti come gli ftalati e si rompe. Anche il vetro si rompe ma per retaggio ancestrale viene usato con più attenzione e non inquina il contenuto.

Troviamo sugli scaffali imballaggi con indicazioni simboleggiate solo da sigle (pp,pet, hdpe, ps, ecc) di cui  pochi conoscono il significato; sembra accettato non capirne il significato. Esse indicano solo il materiale plastico di cui composto; ma poi per le bioplastiche (pla o pha) che costituiscono già una alternativa credibile in certe applicazioni, e sono sul mercato, non sono ancora riconosciute dai consorzi di raccolta delle plastiche, di cui però pagano loro pure la tassa e che gli utenti non sanno dove mettere. Le indicazioni “solo per addetti ai lavori”, impediscono al consumatore di fare una scelta consapevole nel modo di smaltimento, che poi varia da comune a comune, aumentando il caos.

In Italia per gli imballaggi plastici in pet o pp, che hanno impatto ambientale assai diverso (pet  quasi il doppio di pp), non troviamo invece alcun riferimento né simboli né numeri, sul loro impatto ambientale; al consumatore non deve interessare. Punto.

Tuttavia per certe certificazioni come Nordik Ecolabel in Scandinavia, già oggi per avere il riconoscimento di qualità ambientale viene calcolaao l’impronta ambientale secondo standard precisi, magari abbastanza “di manica larga”; che sono però e comunque sempre aggiornabili via via che la tecnica propone soluzioni  migliori al mercato.

Tutti sanno che il punto chiave del problema della  sostenibilità ambientale è: la  sua impronta di carbonio (kg/Co2) – ovviamente a parità di capacità di conservazione dell’alimento;  ma molti, troppi, girano la testa da un altra parte.

Eppure la EU ha già creato linee guida che indicano ad un acquirente l’eventuale impatto sull’ambiente della propria scelta e grazie ad esse il consumatore sceglie consapevolmente per es. con gli elettrodomestici in ambito di consumo energetico (che paga lui alla fine).

Sicuramente mettere in chiaro l’impronta ambientale – almeno per “categorie” – non ridurrebbe molto gli sprechi che sono un fatto culturale, vero problema di questo Pianeta, ma almeno si emetterebbe un “chi-va-là” a scelte non proprio scientifiche  dei consumatori e talvolta molto, molto di comodo. Consentirebbe agli scettici e agli anziani in genere più conservatori, di fare scelte non di comodo ma di opportunità.

Green Alliance scrive: “One supermarket representative said: There are people who would like us to take plastic out of the soft drinks section and replace it with something else like glass and Tetrapaks, which arent recycled in the area.” Che tradotto fa capire come anche gli stessi operatori non sanno molto di cosa parlano: “Un rappresentante del supermercato dice: ci sono persone che vogliono eliminare le plastiche dalle bevande e rimpiazzarle con altro come vetro o tetrapak, che non sono riciclabili in questa area.” Suppongo che l’operatore si riferisse alla distanza del suo paese, dai centri di raccolta e riciclo specializzati per vetro e tetrapak. Ancora una volta il rischio di comunicare in modo approssimativo:  c’è un differenza tra capacità di recuperare i materiali come distanza  dal centro di smistamento e quella dell’effettivo costo di recupero e rigenerazione, che è quello che serve. Anche i materiali hanno valori e capacità di assolvere al suo compito che sono diversi da caso a caso. Comunque da qui a dire che la plastica impatta meno ce ne corre; infatti il problema non deve essere visto in funzione del solo smaltimento o riciclo ma del ciclo vitale: da dove si  estrae la materia prima fino a dove la si mette per essere ricreato un nuovo prodotto, al suo  fine vita.

La determinante della scelta di un alimento poi, non può essere in assoluto l’imballaggio che è o dovrebbe essere, un fattore di protezione dello stesso, quanto il suo valore di insieme. Invece molte volte purtroppo, la scelta si limita al solo “effetto brand”. Sappiamo tattiche che spesso il cibo industrializzato non è di quella qualità decantata dagli spots quanto piuttosto vale l’estetica dell’imballaggio, il linguaggio della comunicazione. Nelle bevande con frutta per es. la antiestetica precipitazione sul fondo  di residui vegetali nello stoccaggio ma soprattutto il rischio di ossidazione degli elementi vegetali, degradandone il contenuto , dovuti dall’azione della luce che filtra e si scompone passando dallo strato plastico, ha comportato per es di dover incappucciare le bottiglie in una contro etichetta plastica che copre fino al tappo; stampata da esaltarne il contenuto con immagini di effetto ma che invece ha lo scopo solo di proteggere il contenuto dalla luce, aumentando anche la quantità dello scarto plastico. Questo per es. non avviene nell’imballaggio in tetrapak che comunque ormai si ricicla per intero a dispetto del pensiero del direttore del supermercato.

Infine trovo invece interessante  un rilievo riportato nel report di Green Alliance che sottolinea come ci sia stato un decisivo cambio del materiale usato per il packaging in aree e prodotti di nicchia come per la frutta o prodotti surgelati o cibi precotti o set posate….”This reflects a trend seen around the world, with a recent Greenpeace International report listing examples of multinational companies shifting away from single use plastic towards single use paper or bio-based or compostable material” tradotto: “questo riflette un trend visto in tutto il mondo, con un report di Greenpeace international che porta esempi di multinazionali chug hanno cambiato da imballaggio monouso di plastica, a carta o materiale compostabile di origine vegetale (ndr: come le bioplastiche).” E’ un buon dato che però si può confondere – se detto dalle multinazionali stesse – con green washing.

Lo stesso effetto lo vediamo da noi ma ancora una volta in ritardo è la politica con le sue norme a favore della capacità di scelta critica del consumatore, che in genere non ha una lobby così efficiente come le imprese. Qualcosa però si muove: A supermarket representative said: The whole agenda needs to be more aligned and more encompassing with carbon. Were so focused on the plastics that we seem to have lost sight of the impacts around climate.” Un rappresentante di un supermercato ha detto: occorre essere più allineati e e più inclusivi con l’impronta di carbonio. Siamo  cosi concentrati sulla plastica che  sembra si perdano di vista altri fonti di impatto ambientale  circa il problema climatico.” Concordo, ma intanto non molliamo la presa sul chiedere una maggiore trasparenza e possibilità di valutazione della scelta nel settore degli imballaggi per concentrarci poi su sfide molto più complesse. Gli imballaggi usa getta in plastica predominano anche nei  nostri supermercati, anzi gli italiani sembra ne siamo più attratti dal momento che ormai anche il fresco viene presentato per lo più insacchettato. “According to 2018 and 2019 surveys by Greenpeace and the Environmental Investigation Agency, UK supermarkets put at least 59 billion items of single use plastic packaging on the market a year. That works out at nearly 900 pieces of plastic for every person living in the UK.” In UK secondo varie ricerche ogni essere umano vivente maneggia 900 imballaggi di plastica ogni anno. Noi realisticamente, in Italia, non sia da meno oggi e se le statistiche dicono che ad oggi se ne rigenera solo il 24% circa, ognuno tiri le proprie conclusioni e gioca di conseguenza. Il Pianeta non può aspettare i nostri comodi.

Link per scaricare il Rapporto “Plastic Promises” di Green Alliance UK

Marco Benedetti
m.benedetticonsulting@gmail.com 

Articoli correlati