Una storia da raccontare: anche il fotovoltaico è antifascista

Anche per chi, come il nostro portale, si occupa da anni di energie pulite i riferimenti storici possiedono una loro grande rilevanza, specialmente se ad essere protagonisti sono personaggi riferiti al territorio che viviamo. Parliamo di colui che nel lontano 1905 spiegò per primo l’effetto fotoelettrico, vincendo successivamente il premio Nobel nel 1921, che fu alla base della fonte rinnovabile fotovoltaica, oggi di riferimento per la sua diffusione nei territori e per la sua modularità e scalabilità. (dipinto di copertina decicato ad Alberto Droandi realizzato da Lorenza Mazzetti). 

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Il riferimento tra la terra di Toscana ed Albert Einstein ce lo fornisce il cugino del grande fisico, Robert Einstein, scampato all’eccidio nazifascista del Focardo, nel comune di Rignano sull’Arno, del 3 agosto 1944, nel quale furono trucidate la moglie Nina Mazzetti Einstein e le sue due figlie Luce (27 anni) e Annamaria (18 anni). Di quella tragica ed efferata strage Robert Einstein non se ne diede mai pace, al punto che meno di un anno dopo, il 13 agosto del 1945, si uccise avvelenandosi nel cimitero della Badiuzza, presso Troghi, nel comune di Rignano sull’Arno, dove riposavano le sue care e dove oggi è stato eretto un monumento alla loro memoria.

Il monumento alla memoria e la tomba di Roberto Einstein

Su questa tragica storia segnaliamo che Domenica 2 febbraio alle 20:45 a Firenze, presso il Teatrino della Società Machiavelli (Via del Trebbio 14R), verrà proiettato il docufilm “Einsteins Nichten”. Un evento promosso dal Centro Culturale Protestante “P.M.Vermigli”, con interventi di Alessandro Sardelli, Valdo Spini, Lucia Felici, Niccolò Rinaldi. Info proiezione

Estratto dal numero 12 di “Notizie di Storia”, l’articolo del signor Alberto Mario Droandi “Agosto 1944: quei cinque giorni di Robert Einstein”

La tragica storia è documentata dal ricordo di persone che vi assistettero impotenti e non poterono mai dimenticare. Una nipote, la allora bambina Lorenza Mazzetti, scrittrice e regista, sopravvissuta alla strage in virtù del suo cognome diverso da Einstein, e perché la famiglia Mazzetti non era ebrea, ne ha scritto un libro dal titolo “Il cielo cade”, uscito nel 1961 ed insignito del Premio Viareggio  (oggi disponibile nei tipi di Sellerio Editore, nella ristampa del 2000). Si tratta di una toccante opera nella quale la scrittrice è riuscita a narrare, con gli occhi e il sentire della bambina di allora, prima, la storia della sua infanzia con gli zii che l’avevano allevata e, poi, della tragedia di cui fu testimone e che la privo di loro e delle cugine. Dall’opera è stato tratto anche l’omonimo film, per la regia di Andrea e Antonio Frazzi, per l’interpretazione di Isabella Rossellini, andato più volte in onda anche in televisione.

Risale al 1975 il volumetto “Ricordi di quei giorni” di Nello Dini, edito dalla Giuntina di Firenze, nel quale l’autore ripercorre la vicenda di cui fu testimone oculare, trovandosi quel giorno anche lui nascosto nel bosco insieme all’ingegner Einstein ed essendo tra coloro che gli impedirono di precipitarsi alla villa per non essere anche lui inutilmente ucciso. E’ lui stesso che racconta di come l’ingegnere, appreso del barbaro assassinio delle sue donne, si era messo a correre come un folle, gridando: “sono io Roberto Einstein, quello che cercate per uccidere” e le sue grida si persero lungo la strada verso il Fagiolo dietro al camion dei naziasti. Riapparve dopo cinque giorni.  E’ proprio nel vuoto di quei cinque giorni, che Nello Dini non potè descrivere, che si colloca il racconto testimonianza di Alberto Mario Droandi, al tempo responsabile per la sicurezza della vicina cittadina di Montevarchi, incaricato dal Governo Alleato locale, che incontrò il disperato Robert Einstein,e che passò con lui alcuni giorni, cercando di dissuaderlo dal proposito di suicidarsi.

Anche nel libro di Lorenza Mazzetti, quando si descrive la disperazione dello zio appena appreso della strage, si ritrova l’ossessiva richiesta, rivolta poi anche al Droandi, di una pistola per uccidersi, che naturalmente nessuno intese dargli.  L’incontro a Montevarchi avvenne probabilmente nel pomeriggio del 4 agosto e la permanenza di Robert Einstein presso il parroco del Giglio dovrebbe essere durata due o tre notti.

Una considerazione a parte, trovandoci a parlare di storia e delle sue necessità, merita il fatto che la Mazzetti, nel finale del libro, colloca il suicidio dello zio al giorno seguente della strage e non, come fu in realtà, undici mesi dopo il fatto.

Salva la libertà letteraria che non si vorrà negare a nessuno scrittore, una risposta si trova anche nella scarna e bellissima nota dell’autrice che chiude l’edizione Sellerio: “Questa vita mi è stata regalata solo perché ero di un’altra razza. Tutti i sopravvissuti portano il loro peso di questo ‘privilegio’ ed il bisogno di testimoniare”.

Dunque una specie di adesione inevitabile a quel letale senso di colpa dello zio. Infatti, sostituendo alla verità storica quella verità dei sentimenti così dolorosamente comprensibile, non è forse vero che egli morì quel giorno?

Questa storia, della quale altrove Alberto Droandi scrisse che gli era sempre rimasta nel ricordo “come qualcosa di fermo e basilare” per la sua esperienza di vita, è diventata nel suo racconto, ascoltato tante volte in famiglia, parte anche della nostra vita di figli. Non sarà inutile darne un’altra testimonianza.

A.M. Droandi (che ignorava l’esistenza del libro della Mazzetti) ha scritto il racconto dell’incontro con Robert Einstein in due versioni, una più ricca di considerazioni e ricordi personali, l’altra più scarna ed essenziale, entrambe nel 1980. I documenti si conservano in famiglia, in forma dattiloscritta, insieme a fotocopie e corrispondenze sull’argomento.

Abbiamo scelto la seconda versione non soltanto per il suo stringato valore testimoniale, ma anche perché è quella che Droandi stesso scelse di inviare a ad Ugo Jona dell’Anfim di Firenze e a Nello Dini, quando nel 1983 apprese del suo libro sull’eccidio, leggendone nella “Storia del Valdarno”.

Roberto Giulio Droandi e Isabella Droandi        

Erano i primi di agosto del 1944 e mi trovavo a Montevarchi, dove avevo smobilitato una piccola formazione di partigiani che avevo comandato alle pendici del Pratomagno e del Monte Maione. Avevo allora ventitré anni e mezzo e non mi restava altro che un paio di scarpe militari italiane, un paio di pantaloni corti color kaki, una camicia verdolina stinta e consumata e una grossa pistola tedesca che tenevo dentro la fondina aperta, appesa ad un vecchio cinturino militare italiano, ricordo del tempo trascorso nell’Esercito. Il Governatore militare inglese mi aveva chiesto di considerarmi responsabile dell’ordine pubblico in città ed ero l’unico, oltre ai Carabinieri, autorizzato a tenere le armi.

Una sera, mentre passavo per via Roma, un anziano signore con i vestiti in cattive condizioni mi fermò e mi chiese di parlarmi a quattr’occhi di una questione, come la definì lui stesso, molto delicata. Lo portai così in retrobottega, là vicino, che mi serviva da recapito. Non appena soli, mi chiese con molta decisione di prestargli la pistola perché ne aveva necessità, e quando gli domandai la ragione dell’inconsueta richiesta, mi rispose che voleva suicidarsi. A questo punto gli domandai che era e quali motivi lo spingessero a tanto. Mi rispose di essere l’Ingegner Robert Einstein, cugino di primo grado del fisico Albert; di essere scappato giusto in tempo dalla Germania nell’epoca delle persecuzioni razziali e di essersi stabilito a Firenze, sotto la compiacente protezione di un influente gerarca fascista. Ultimamente tutta la sua famiglia si era trasferita in una proprietà di campagna, la fattoria detta il Focardo, nei pressi di Troghi nel comune di Rignano sull’Arno, perché era ricercato dai tedeschi in ritirata su Firenze. Per questo motivo, per prudenza usava allontanarsi anche dalla villa, nascondendosi nei boschi vicini. Con la moglie aveva l’intesa che se lei avesse dovuto chiamarlo per qualsiasi ragione, un certo modo avrebbe significato che poteva rientrare tranquillamente ed un certo altro, invece, che c’era pericolo e doveva restare lontano. Ma un giorno d’agosto era arrivato alla villa un reparto di SS che lo cercavano. Avevano costretto la signora a chiamarlo e lei, secondo le intese, gli aveva segnalato il pericolo. Lui era rimasto nascosto nel bosco, ma poco tempo dopo aveva sentito ripetute raffiche di mitra ed aveva visto alzarsi il fumo dalla villa del Focardo. Era corso subito giù, ma quando era arrivato i tedeschi erano già andati via dopo aver trucidato la moglie e le figlie. Si erano salvate soltanto due sue nipoti ed altre sfollate presso di loro.

Da queste circostanze tragiche era nata in lui la convinzione di essere responsabile della fine dei suoi che, diceva, sarebbero stati risparmiati se i tedeschi avessero trovato lui, e di doverne seguire ora il destino mediante il suicidio. Non valsero gli argomenti più ovvi di ordine religioso, umano morale o logico a farlo desistere dalla sua intenzione: l’unico argomento contro il suo proposito, al momento, era che non avrebbe avuto a disposizione la mia pistola.

Mi disse di conoscere il parroco del Giglio, alla periferia di Montevarchi e ce lo accompagnai, facendosi oramai sera dopo il lungo parlare nel retrobottega. Anche il sacerdote cercò di fare opera di convinzione sul povero ingegner Einstein ma senza risultato. Gli mise a disposizione una cameretta e gli fece mangiare qualche cosa. Io mandai due uomini che a turno non lo persero di vista per tutta la notte, per impedire che attuasse il suo progetto con altri sistemi. Al mattino dopo lo rividi e mi resi conto dalla sua espressione, prima che dalle sua parole, che la notte non aveva cambiato le sue decisioni. Alla fine mi venne in mente un ultimo argomento e gli dissi che, comunque la volesse intendere, aveva il preciso dovere le sue due giovani nipoti lasciate al Focardo, predisponendo per loro, se non altro, le questioni patrimoniali e tutti quei problemi pratici che sarebbero scaturiti a causa della sua morte.

Rifletté un po’ su questo aspetto e poi mi dette ragione, pensando a quelle bambine sole, ancora al margine della linea del fronte. L’idea dei doveri da assolvere sembrò averlo fatto recedere almeno temporaneamente dai suoi propositi suicidi. Mi chiese allora di aiutarlo a tornare alla villa, dalla quale era scappato dopo l’eccidio, passando il fronte e trovandosi infine a Montevarchi, disse, “senza sapere come”. Gli ottenni un permesso per utilizzare i mezzi militari che andavano verso Firenze, che era ancora in mano ai tedeschi.  Mi salutò, assicurandomi che non si sarebbe ucciso senza aver assolto ai suoi doveri familiari.

Fui contento di aver ottenuto quello che mi sembrò un successo in una situazione tanto penosa. Pensai, oltretutto, che il tempo avrebbe portato consiglio ed attenuato il dolore dell’Ingegnere, che forse proprio nelle nipotine avrebbe potuto ritrovare interesse alla vita.

Nell’estate del 1945, dopo la fine della guerra, alla quale avevo partecipato nell’esercito regolare ricostituito al Sud, ebbi una breve licenza premio che trascorsi ad Arezzo in casa di mia madre. Dopo mesi di linea, dormendo sempre in buca o a cielo aperto, poco e male, mi sembrava perfino impossibile stare a letto fino a tardi, quando la mamma mi apriva la finestra sul balcone e mi svegliava con una tazzina di caffè e il giornale.

Una di queste felici mattine, però, aprendo il giornale mi saltò agli occhi il nome e una foto dell’Ingegner Einstein: si era ucciso. Il tempo, dunque, non aveva portato consiglio, né potuto lenire il suo profondo dolore.

Molti anni dopo ebbi occasione di raccontare questa vicenda ad un noto scrittore inglese, mio buon amico, e lui mi consigliò di mandarne un resoconto ad Albert Einstein negli Stati Uniti. Mi ero di farlo ma, rimanda e rimanda, venni a sapere infine che il grande fisico sarebbe venuto in Italia, a breve, per rendere omaggio alla tomba del cugino. Mi ero ripromesso allora di avvicinarlo in quell’occasione, ma la morte lo colse prima che potesse realizzare il suo pellegrinaggio, così quei tristi giorni sono rimasti sconosciuti a chi, più di chiunque altro, avrebbe avuto diritto di conoscerli. Solo poche persone sono al corrente di questa vicenda, miei familiari o amici: questa volta scrivo quello che ricordo come omaggio alla memoria del disgraziatissimo Ingegner Robert Einstein.

Alberto Maria Droandi – Caposelvi, febbraio 1980   

Alberto Droandi  nel 1945 (foto a sinistra) e da anziano (foto a destra)

Profilo biografico di Alberto a cura di Roberto Giulio Droandi e Isabella Droandi       

Alberto Maria Droandi, figlio dell’avvocato Giovanni, era nato ad Arezzo il 28 dicembre del 1920, maestro elementare, allo scoppio delle ostilità, nel 1940, frequentò da volontario la Scuola degli allievi ufficiali, dalla quale uscì per partecipare, con il grado si tenente di Fanteria (di complemento), alla campagna do Jugoslavia e per passare poi nei Paracadutisti.

Dopo il crollo del fascismo, prese parte attivamente alla Resistenza, combattendo sul Pratomagno e sui monti del Chianti, in qualità di comandante di una formazione partigiana. Successivamente, attraversate le linee e raggiunto il ricostruito esercito italiano, inquadrato nel Reggimento Paracadutisti “Nembo”, della Divisione “Folgore”, partecipò alla Guerra di Liberazione sulla “linea gotica” e prese parte alla “liberazione” di Bologna (Croce al valor militare, Croce del merito di guerra, promozione a capitano).

Tornato alla vita civile, sposò Matilde Mannucci e, laureatosi in Economia e commercio presso l’Università di Firenze, fu per circa veti anni direttore dell’Ente provinciale per il turismo di Arezzo, contribuendo allo sviluppo turistico della città e della provincia con l’organizzazione e la promozione di eventi e manifestazioni quali il Saracino, il Concorso polifonico internazionale, la Fiera antiquaria, le grandi mostre d’arte di quegli anni, che fecero conoscere la città e le quattro vallate che la circondano, in Italia e nel mondo, anche con la fondazione del Gruppo Sbandieratori. Il suo lavoro, connotato dalla valorizzazione del patrimonio naturale, culturale, artistico e produttivo del territorio e dell’attiva promozione all’estero, ebbe il riconoscimento di varie onoreficenze civili, quali, fra le altre, la Croce di commendatore della Repubblica Italiana, la Medaglia d’argento dei Benemeriti della cultura e la Croce di Cavaliere dell’ordine di San Marino.

Lasciata Arezzo nel 1972, diresse l’Ente provinciale per il turismo di Perugia fino al suo scioglimento, passando quindi alla Regione Umbria. Ritiratosi nel 1977, scelse di vivere a Caposelvi, presso Montevarchi in provincia di Arezzo, occupandosi di agricoltura, di fotografia, di storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Venne a mancare il 3 febbraio del 1977, in mezzo al verde di quella campagna toscana che tanta parte aveva avuto nella sua vita, così in tempo di guerra come in tempo di pace.

La risposta all’articolo apparso su Notizie di Storia delle nipoti di Robert Einstein

Un destino avverso    

Abbiamo letto con molta commozione, nel numero 12 di “Notizie di Storia”, l’articolo del signor Alberto Mario Droandi “Agosto 1944: quei cinque giorni di Robert Einstein” [pubblicato postumo per iniziativa dei figli, n.d.r.], che narra l’incontro tra l’Autore e nostro zio Robert Einstein. Lui per noi è stato un Angelo che ha incontratolo zio, un uomo disperati; a lui siamo grate per la sua umanità, il suo ascolto, il suo aiuto. Solo un grande cuore poteva accogliere tanto dolore, calmare, ridare un senso a un deciso a suicidarsi. Non potendo abbracciare lui, abbracciamo forte i suoi figli e familiari per averci fatto prevenire questo suo ‘diario’. Lo zio ci ha fatto credere di non volersi più togliere la vita; invece, dopo aver sistemato le cose in modo tale che noi, pur non essendo sue figlie, ricevessimo per testamento la sua proprietà, ci lasciò un biglietto chiedendoci di perdonarlo se a volte era stato burbero con noi e ci chiese di non portare il lutto e ricordarlo con amore. Il destino ha poi voluto che il nostro tutore ci lasciasse senza una lira, avendo male amministrato i suoi beni. Il destino ci è stato avverso anche in questo.

Lorenza e Paola Mazzetti, Roma

Un articolo pubblicato dal Corriere della Sera dove le sorelle Mazzetti identificano l’uccisore della famiglia Einstein nel 2016

Un prezioso album fotografico gentilmente messo a disposizione da Eva Koloslosky, figlia di Paola Mazzetti

A seguire un bellissimo documento dal titolo “Gli Einstein a Firenze e dintorni – Storia di una tragedia”

La Redazione di Ecquologia ringrazia sentitamente Isabella Droandi per aver condiviso questa vicenda e per la messa a disposizione dei diversi contributi.

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