Contribuire al benessere del Pianeta in tempo di crisi si può, anzi si deve
I ragazzi dei Fridays For Future ci ricordano, pur in queste difficili circostanze, di non mollare il tiro ed anzi usare il tempo a disposizione a casa per migliorare la propria impronta ambientale, per es. con azioni banali come buttare bene i rifiuti nella raccolta differenziata: azione che evidentemente non è così facile stando ai dati della raccolta differenziata che evidenziano che ci siano ancora troppi scarti messi nei contenitori sbagliati compromettendo il recupero, il riciclo o la produzione di compost.
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E io penso che quei ragazzi abbiamo assolutamente ragione. Anche il nostro modo di agire dovrebbe tener conto di quella logica: si ridurrebbero gli sprechi. Invece spesso compriamo e consumiamo senza renderci conto di quanto usiamo delle risorse del Pianeta, per una vaschetta di verdura, un trancio di tonno, un pacco di biscotti: nessuno ci racconta di quanto è costato al Pianeta portarli sulla nostra tavola, compreso il petrolio pompato che un tempo era una foresta rigogliosa.
Il rischio maggiore è che questo tempo di crisi non venga usato bene, anzi serva per giustificare il decadimento della tensione sulle azioni quotidiane che siamo chiamati a garantire per il loro futuro. Inutile far finta che il problema debba essere rimandato, che ora dobbiamo pensare alla crisi, magari piangersi addosso e agire superficialmente come scusa.
Anzi sappiamo dalla lettura della storia che è proprio in tempo di crisi che occorre rileggere il passato per puntare con forza sul futuro. La crisi del Coronavirus finirà prima o poi e se la politica sarà impreparata, toccherà agli stessi cittadini e alle aziende dimostrare che si è imparato qualcosa dagli errori.
Già la recente presentazione del Rapporto sulla economia circolare, messo assieme dalla fondazione per lo Sviluppo Sostenibile presieduta dell’ex ministro per l’ambiente Edo Ronchi, denota un rallentamento nel 2019 degli investimenti per il miglioramento dell’impatto ambientale di diverse attività e produzioni. E’ vero che in alcuni campi della bioeconomia l’Italia vanta buone posizioni in Europa, ma se analizziamo l’insieme dei dati, quello che facciamo e quello che invece potremmo fare e soprattutto dovremmo fare, l‘Italia è ancora un Paese di furbetti con orecchi da mercante e il cuore di pietra, incapace di pensare oltre il proprio egoismo. Non tutti ovviamente, e soprattutto sempre più persone fanno del proprio meglio (giovani compresi), se non fosse che mancano anche gli strumenti per non cadere in tentazione: dalla raccolta differenziata a macchia di leopardo, allo spreco alimentare, dall’inquinamento dell’aria, alle cattive abitudini di usare il suolo pubblico come un gigantesco immondezzaio, dal consumo di carburanti per un parco veicoli tra i più vecchi d’Europa, alla ridicola percentuale di riciclo effettivo degli imballaggi plastici che continuano ad arrivare al mare attraverso i fiumi, al consumo intensivo del suolo e potrei citarne altri di settore. La sindrome che vede in primo luogo proteggere l’orticello privato (America first and myself first too) non conosce ancora un vaccino democratico.
La politica poi litiga su tutto come se il Pianeta avesse confini certi, fallendo nella scelta delle lenti e preoccupandosi solo dall’estetica della montatura, proprio come clamorosamente dimostrato dal virus: trenta anni senza programmi di medio lungo periodo se non per raggiungere la prossima elezione, la politica trasformata in uno stipendificio di lusso. Proprio come non l’avevano pensata e presentata i filosofi greci tanto ammirati e per nulla seguiti.
Mi domando come occorra un problema planetario per prendere coscienza che certe produzioni che garantiscano la protezione della propria popolazione non devono essere affidate a chi costa meno, che sta spesso dall’altra parte del globo, ma a chi garantisce forniture in tempi utili. I produttori di mascherine italiani in realtà sono commercianti che importano le produzioni da aziende cinesi: valgono pochi centesimi, ma poi le fanno trasportare per 9000 km con navi che inquinano tantissimo. E ora mancano. Chi paga il conto sia dei disagi che dell’inquinamento causato? Il secondo è facile dirlo: i posteri più prossimi. Ma dove sono state messe le attenzioni dei governi che si sono succeduti alla conservazione nel territorio di produzioni strategiche come quelli sanitarie? Il virus peggiore è quello che ci ha fatto sentire tutti invincibili.
In America un presidente cowboy (con i soldi sottratti a milioni di poveri del proprio paese strozzati dai tentacoli dell’amica finanza e incapaci pertanto di pagarsi una polizza sanitaria privata) corregge un appunto sottolineando che il virus è cinese da quando ha scoperto che è una cosa grave e non più poco più dell’influenza: la colpa è sempre di un altro cattivo. La Cina progetta di andare sulla luna a cercare minerali preziosi per le nostra connessioni spesso a base di cazzate e di smart-working ma non riesce, dopo sars, influenza aviaria e peste suina degli ultimi 20 anni, a obbligare controlli degli ispettori sanitari sugli animali selvatici vivi portati al mercato cittadino dove gli umani camminano per forza di inerzia spinti dalla folla. E’ ormai certo che il virus sia partito da un pipistrello portato al mercato di Wuhan.
L’inquinamento è infatti un debito consolidato solo per i nostri figli. In questi giorni di astinenza dall’auto, usata anche per andare solo a 2 km da casa, i cieli migliorano nella Pianura Padana (tra le 3 aree più inquinate di polveri sottili in Europa): c’è lo stop ai trasporti e alle industrie e la gente tappata in casa può finalmente vedere il cielo azzurro ma non muoversi dalla terrazza: danno e beffe allo stesso tempo. A Shenzen megalopoli cinese a due passi da Hong Kong nel corso di uno degli ultimi viaggi, ricordo non si vedeva oltre il 2° piano per via della cappa di smog: 30 milioni di persone che per vedere il sole dovevano ricorrere ai cartelloni pubblicitari giganti o ad un microscopico virus e poco tempo dopo anche alle cure sanitarie per sturarsi il polmoni dal particolato che passa attraverso i filtri dei condizionatori. Ma poi l’occidente e l’oriente (Europa e America) torneranno a usarla come pattumiera di uomini e materie prime, salvo poi lamentarsi dei minestroni di pezzi di plastica, isole nei mari degli altri. E noi saremo in prima fila a far la coda per andare al mare e per tornare in città.
Uniamoci pure attorno all’inno di Mameli, cantiamo anche il Va Pensiero, che va oltre il confine politico e geografico, che supera le montagne ormai senza ghiacciai, corre sui mari senza pesci, sale in cielo scansando aeroplani che non sono in grado di raggiungerlo, atterra nei timpani di gente mentre spara ad uno degli ultimi rinoceronte per un corno, necessario a compensare l’egoismo di chi glielo commissiona e per la propria sopravvivenza (tanto è un africano che non deve migrare ma limitarsi a mangiare radici nel suo paese) e infine. arriva dall’altra parte del globo, ma poi torna a noi perché la terra, a dispetto di chi non ascolta la scienza, è tonda. Torniamo ad insegnare educazione civica nelle Scuole, per quei ragazzi che rispettano la consegna in casa per ordine del governo, ma che devono continuare a vedere oltre per non far morire una speranza: la loro.
Marco Benedetti