Stiamo diventando dei Big Jim? Microplastiche dalle confezioni a dentro di noi

Lo studio scientifico pubblicato il 19 marzo scorso in Australia, di cui riportiamo alcuni stralci, dovrebbe diventare lo spunto per un corso di educazione civica da proporre al Ministero della Istruzione: pensare prima di sprecare. Secondo un costume in uso dai molti lobbisti che affollano le sale delle istituzioni, seguendo lo schema  tipico  delle grandi imprese, “se non sai non domandi”,  i cittadini infatti non devono interessarsi a cose che coinvolgono i gesti della quotidianità. La scusa è quella di evitare un potenziale allarme sociale. (nella foto di copertina: colazione in un rifugio alpino sul Monte Sorapis: contenitori monouso in plastica  come la tazzina del caffè a 2000 mt in mezzo alla natura)

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La Scienza d’altra parte analizza e pubblica sulle riviste scientifiche ricerche approfondite, che a sua volta, quando diventano pubbliche, vengono citate a proprio favore o contrastate asserendo che sono studi fatti per attirare l’attenzione e pilotare le azioni dell’utente.

Nel mondo della plastica, la presa di coscienza che il problema delle microplastiche è presente in tutti i momenti della nostra quotidiana esistenza, è probabilmente una realtà da tempo conosciuta e studiata. Esso fa sì che grandi corporation fanno e pagano grandi studi e grandi professori. I ricercatori invece  fanno il loro mestiere ma spesso i loro studi rimangono confinati agli addetti ai lavori solo perchè “scomode realtà”.

Già sappiamo tutti delle microplastiche nei pesci: best seller del 2019. Ora un recente studio, pubblicato il 19 marzo 2020 dai ricercatori Zahra Sobhani, Yongjia Lei, Youhong Tang, Liwei Wu, Xian Zhang, Ravi Naidu, Mallavarapu Megharaj & Cheng Fang in Australia, evidenzia come le microplastiche si formino anche aprendo semplicemente le buste di plastica. Probabilmente microfibre volatili si formavano anche tagliando la carta gialla o di giornale, quando si imballavano gli spaghetti negli anni 50, come ben ricordo anche io. Ma allora il concetto di igiene era in evoluzione e in Europa si stava imparando invece che a cucinare, a comprare precotto facendo la fortuna degli imballaggi usa e getta. Le microplastiche sono quei pezzetti microscopici, impalpabili, volatili, talmente leggeri da depositarsi sugli strumenti di taglio di una busta o da essere inalati con un sospiro o restare attaccate al contenuto con le conseguenze del caso. Sono state registrate micro-rotture dovute al taglio con le forchette, forbici, coltelli.

Lo studio analizza i fatti e pubblica foto.

Ma l’angolo visuale da cui partire per una riflessione costruttiva è dove si trova  il baricentro di tutto: l’ECODESIGN. Perchè questo offre un modo di progettare oggetti anche di uso comune come gli imballaggi che partono dalla necessita conclamata di NON agevolare lo spreco: il Pianeta è di fatto un posto a dimensioni limitate. Ecodesign è l’arma dell’economia circolare dove la razionalità della Scienza si deve combinare con la Tecnica e la capacità imprenditoriale, nonché l’interesse primario della Sostenibilità del Pianeta. Qui, nel Pianeta l’essere umano è un ospite vorace, presuntuoso, incosciente talvolta, ma anche un pensatore, un filosofo, un artista e un padre e madre di famiglia. Mentre la politica, questa politica, non è  evidentemente capace di pensarci e forse non è neppure il suo lavoro.

Nel logorante stridio tra sostenitori della plastica e quelli della bioplastica, noi crediamo che la Chimica Verde – che prende in Natura e riporta in Natura – dovrà comunque vincere; non sempre, ma questa volta lo deve fare. Anche a fronte di posizioni contrastanti tra i vari studi commissionati o considerati dalla stessa Comunità Europea – forse a seconda di chi lo ha finanziato – anche se definito indipendente come EASAC o https://www.easac.eu o di parte come EUBA europea bioplastic association https://www.european-bioplastics.org , che riporta altri studi  con altre conclusioni.

L’unica verità è che il mondo è pieno di spazzatura di plastica, i mari come i fiumi e i bordi delle strade. E così non si può andare avanti.

Vincerà la Chimica Verde che vede nelle bioplastiche  – soprattutto se di origine da scarto agricolo – una delle alternative credibili anche per il solo fatto che per assicurarsi un futuro, quest’ultima deve essere più credibile dell’altra, legata alla speculazione finanziaria. Carta e bioplastiche negli imballaggi hanno sicuramente margini di miglioramento. La Plastica di sintesi è però ancora alla base del 99% degli imballaggi prodotti nel Pianeta e si continua ad accumulare in ambiente, con prospettive di raddoppio nei prossimi 10 anni.

Gli imballaggi alimentari sono spesso gli unici che arrivano in mano ai consumatori: qui andrebbero dunque concentrate le risorse, anche culturali oltreché mediatiche. E poiché non tutto sarà in bioplastica, perchè tecnicamente non sempre utile, dovrà trovarsi uno spazio per  entrambi: l’imballaggio alimentare sicuramente con la bioplastica.

Fracois De Bie, segretario della ass. europea bioplastiche rimarca in una newsletter:..”Siamo convinti che una valutazione approfondita degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile certificata EN 13432 giungerà alla conclusione che ci sono alcune applicazioni in cui la compostabilità ha perfettamente senso”, afferma ”Gli imballaggi, che sono soggetti a forti contaminazioni con i rifiuti alimentari, non saranno riciclati meccanicamente. Invece, nella maggior parte dei casi, sarà incenerito, o peggio ancora, messo in discarica. “Le bioplastiche compostabili aiutano a deviare i rifiuti organici dalle discariche. Il rimedio può essere solo quello di consentire il compostaggio di tali imballaggi insieme ai rifiuti organici raccolti separatamente.” Che le plastiche contaminano talvolta anche i cibi è cosa nota e spesso rafforza il mito dello struzzo.

L’imballaggio perfetto probabilmente deve essere ancora scoperto; quello che fa meno danni è probabilmente già nelle corde dei tecnici. Qualcuno però dovrebbe rendere obbligatorio un corso su come diventare frattempo un consumatore critico. Se però tocca allo Stato… tocchiamo anche ferro.

Nello studio australiano citato sopra si legge: “Le microplastiche sono frammenti di plastica, fibre, detriti o particelle nell’intervallo 1 µm – 5 mm1…. Si stima che l’accumulo di plastica nell’ambiente naturale sia di 155-265 milioni di tonnellate entro il 2060….il 13,2% di questo peso potrebbe essere costituito da microplasticheLa principale preoccupazione per le microplastiche riguarda la loro elevata durabilità nell’ambiente naturale, il loro forte potenziale di rilascio di monomeri e additivi/prodotti chimici di plastica e la loro straordinaria capacità vettoriale di assorbimento/accumulo di altri inquinanti ambientali. Sebbene la loro esatta tossicità per l’uomo non sia ancora stata risolta, le microplastiche sono state rilevate nelle feci umane.

Una volta entrati nei nostri corpi – si legge nell’abstract della ricerca pubblicata on line – tuttavia, sia per ingestione che per inalazione, è stato segnalato che le microplastiche possono potenzialmente causare una risposta immunitaria localizzata” E continua sottolinea: “Questi cambiamenti di massa sono assegnati alle microplastiche generate dalle azioni quotidiane. Cioè, la maggior parte delle microplastiche generate potrebbe fluttuare in aria o in alternativa cadere al di fuori dell’area di lavoro.”

Riporto infine un ultimo pezzo:”….Attualmente, come le microplastiche entrano nel nostro corpo non è del tutto chiaro. È stato ipotizzato che l’esposizione umana alle microplastiche potrebbe avvenire attraverso la catena alimentare (ingestione) o per inalazione di aria. Le prove a sostegno di questo presupposto sono che la presenza di microplastiche è stata confermata in frutti di mare, miele, zucchero, sale marino, acqua di rubinetto e persino birra..”

Quindi concede che: “Una volta introdotti nell’ambiente, il destino e il trasporto delle microplastiche possono essere alimentati attraverso l’avvento del vento, il deflusso delle acque piovane, i sistemi di drenaggio e le acque reflue. Precedenti studi hanno suggerito che la distribuzione ambientale di microplastiche può avere conseguenze sulla contaminazione degli alimenti attraverso la lavorazione e l’imballaggio dei prodotti”.

E’ da questa ultima affermazione che occorrerebbe ripartire. Se il punto di partenza del programma,  che dovrebbe essere in carico ad ogni governo, “Sostenibilità & Salubrità” sono per es. le confezioni alimentari che arrivano sulle nostre tavole, allora forse occorrerebbe prendere atto di queste conclusioni:

  1. non è il prezzo che conta di un imballaggio ma la sua funzionalità.  Quindi se l’imballaggio può essere un danno agli utenti, non dovrebbe essere studiato un cambiamento? magari di materiali? O di struttura? Ovviamente a parità di prestazioni o miglioramenti di queste (tra cui la salute)
  2. va data fiducia a materiali che non hanno gli stessi punti di partenza, come plastiche e bioplastiche. E magari smettere di ostacolare queste ultime, come ancora avviene oggi, a tal punto che non sono riconosciute – forse giustamente perchè non di loro competenza – dai consorzi di raccolta obbligatoria che sono formati da aziende che producono gli imballaggi plastici – e pensano di essere arci-nemici delle bioplastiche a prescindere – ma a cui  però i produttori di imballaggi in bioplastica pagano la tariffa obbligatoria di raccolta: in % sul valore.  Cosicché a materiale che costa di più – come le bioplastiche rispetto a quelle petrolifere – il consumatore ha un ulteriore ingiusto extra addebito.
  3. Esistono delle alternative – solo apparentemente antagoniste agli sciocchi – che possono coesistere. Magari non sullo stesso tipo di prodotto ma su prodotti che appartengano a categorie diverse?
  4. E’ la quantità di varianti offerte dal mercato che potenzialmente innesca un sistema perverso di scarti. Infatti in un mercato aperto le offerte dei brands competono tra loro, ma inevitabilmente creano enormi scarti in modo subdolo: il perdente resta più a lungo sullo scaffale e va in scadenza. Da qui nascono le offerte del supermercato per evitare delle perdite economiche: queste riportano il perdente nei cestini della spesa ma che ovviamente – o nuovamente – lo fanno a danno del concorrente, in un circolo che finisce per essere programmato a tavolino. Ma il sistema  è perverso perché semplicemente raddoppia il rischio che la fatidica  scadenza arrivi mentre questo è nel frigo di casa, lontano dal punto vendita e dal produttore che ovviamente ringrazia per il mancato ritorno.  La stessa Comunità Europea ci dice  poi che oltre il 60% dello scarto alimentare  – e ovviamente degli imballaggi inutili –  viene  proprio dalle famiglie. Rispetto agli anni ’50 del XX secolo gli imballaggi per acquistare cibo sono DECUPLICATI per singola famiglia. Non si può sempre dare del coglione alle famiglie: piuttosto del perverso a chi lo consente.
  5. Occorre favorire e investire in esso un nuovo design che tenga conto dell’intelligenza di 7,7 miliardi di persone: se le cose gli vengono spiegate e non nascoste. L’ignoranza non ha mai aiutato lo sviluppo democratico, ma la prevaricazione di pochi su molti come la finanza senza regole di oggi

E’ un gioco al massacro in cui le famiglie sono i perdenti: comprano di più, buttano via di più, pagano di più tasse (l’Iva) e anche l’immondizia (l’imballaggio contaminato è indifferenziato) e si ritrovano frammenti di questi ovunque in casa, al mare, in montagna.. e si dà la colpa al vento.

Cambiare si può. I cassetti sono pieni di soluzioni che forse non piacciono alla Finanza che viene lasciata a dominare i rapporti commerciali. Ma noi siamo ospiti del Pianeta: se non cambiamo prima o poi ci butterà fuori.

Gli ingrandimenti fotografici delle microplastiche (a sx) pubblicate nello studio  australiana

Nella foto 2: un ironico  poster sulle plastiche presenti in mare (al posto dei pesci)

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