Sprechi alimentari: metà della produzione mondiale non arriva alle tavole dei consumatori
Secondo l’Institution of Mechanical Engineers ogni anno, nel mondo, vengono prodotte circa quattro miliardi di tonnellate di cibo di cui il 30-50% finisce sprecato nella lunga filiera che dai campi e dagli allevamenti arriva ai consumatori. Lo spreco globale di cibo è quantificabile fra 1,2 e 2 miliardi di tonnellate annue.
Si tratta, naturalmente, di una cifra in grado di debellare il problema della fame del mondo e il segno evidente di uno squilibrio produttivo che risulta ancor più assurdo in tempi di crisi. Come dimostra il caso italiano, anche in tempi di recessione la quota di cibo sprecato continua a essere altissima a causa di un’abitudine al consumo incontrollato che si è sviluppata in progressione geometrica a partire dal secondo dopoguerra.
Lo spreco alimentare complessivo per persona è di ben 94 kg, di cui 55% è generato nella filiera (dai mercati fino alla ristorazione) e il 45% nelle famiglie. In termini macroeconomici la cifra corrisponde a 12,3 miliardi di euro di cibo consumabile pari a 5,5 milioni di tonnellate. In casa, dunque, un singolo individuo butta nel cestino 42 kg di cibo, alimenti scaduti, avanzi, frutta e verdura andati a male che equivalgono a 117 euro l’anno. In una famiglia media (2,5 componenti) la spesa annua è di 292 euro.
Il costo ecologico, naturalmente, è immenso. Basti pensare alla quantità di terra, energia, fertilizzanti e acqua che vengono spesi nella produzione del cibo, di energia e carburante utilizzati per la distribuzione e, successivamente, per lo smaltimento di alimenti che non arrivano all’ultima stazione del loro naturale percorso: lo stomaco dei consumatori.
Nel corso del suo studio l’Institution of Mechanical Engineers ha individuato quattro principali gruppi di popolazione:
1) società post-industriali completamente sviluppate con popolazione stabile o in declino e alto tasso di invecchiamento,
2) paesi in via di sviluppo, in via di rapida industrializzazione (Cina, Brasile) con una crescita demografica in decelerazione e una ricchezza in crescita,
3) paesi con un’industrializzazione giovane (Africa), alti indici di crescita demografica (con il probabile raddoppio entro il 2050) e un profilo anagrafico prevalentemente giovane.
Ognuno di questi primi tre gruppi dovrà affrontare con modalità e approcci differenti le questioni riguardanti la produzione, lo stoccaggio e il trasporto e le aspettative dei consumatori.Il quarto gruppo è rappresentato dai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo e quelli in via di sviluppo (Africa sub-sahariana e nel Sud-Est asiatico), aree in cui andrà migliorata la qualità della filiera corta (infrastrutture e centri di immagazzinamento) che unisce l’agricoltore-produttore al consumatore.
Biognerà lavorare anche sulle normative: molto spesso la grande distribuzione respinge raccolti di frutta e verdura perfettamente commestibili perché non conformi a norme di commercializzazione tarate su forma e dimensione, piuttosto che su salubrità e caratteristiche organolettiche. Lo studio dell’Ime spiega come il 30% della produzione vegetale del Regno Unito venga sprecata perché la frutta non è troppo lucida o la verdura non è abbastanza rigogliosa.
Sconti, offerte e promozioni continuano a incoraggiare la clientela ad acquisti eccessivi di cibo che, una volta giunti fra le mura domestiche, generano uno spreco che varia dal 30% al 50% di ciò che è stato acquistato.
Sprecare meno cibo significherà ottimizzare l’utilizzo dei terreni necessari per agricoltura e allevamento, ma anche limitare l’utilizzo delle sempre minori risorse idriche. Nel corso del Novecento l’estrazione dell’acqua per uso umano è aumentato a più del doppio del tasso di crescita della popolazione. Attualmente la spesa globale annua è di 3800 miliardi di m³ di cui il 70% è per utilizzo agricolo. Si tratta di una percentuale che è destinata ad aumentare nei prossimi anni moltiplicando per tre la domanda di acqua nella produzione alimentare fino a 10-13mila miliardi di m³ annui.
Via I ecoblog.it