RAPPORTO ISPRA RIFIUTI SPECIALI 2018 (Ed.2020): la fotografia di un sistema industriale pre-covid19 spazzato via. O forse NO
È stato recentemente presentato nel mese maggio, in pieno lock down, il 19mo rapporto ISRA (istituto superiore per protezione e ricerca ambientale) che monitorizza la stato dei rifiuti in Italia ed in particolare evidenzia la crescita nel 2018 della produzione di rifiuti speciali (https://www.snpambiente.it). I rifiuti speciali sono quelli prodotti nel ciclo delle imprese ovvero prima che escano dall’ultimo segmento del sistema industriale/commerciale e finire quindi nelle nostre case dove diventando rifiuti urbani.
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Si tratta di un dato che certifica una situazione del 2018 ovvero in era pre-covid questo rapporto è destinato a diventare uno spartiacque tra i prima e il dopo. E’ l’ultimo dei normali perchè anche quello del2019 sarà analizzato con occhi diversi. Avendo avuto un lock-dawn di tre mesi (tra chiusura forzata e ripartenza stentata del sistema economico industriale e commerciale) è di facile previsione un crollo nel 2020 del rifiuto industriale causa crisi economica e un probabilmente incremento – se non drammatica crescita – di quello urbano causato dalla esplosione nell’uso di mascherine, guanti monouso ma anche imballaggi alimentari: tutto ormai è imbustato con la giustificazione del rispetto dell’igiene post. covid, tanto che nei rifiuti urbani si dovranno mettere anche quelli usati dagli umani per proteggere gli altri e se stessi dal contagio ma abbandonati nei cestini pubblici, nelle strade pubbliche, nei fiumi pubblici e infine fra non molto nei mari pubblici e nei rifiuti speciali gli imballaggi della categoria agroindustriale che almeno nelle verdure e frutta non era certo abituata a confezionare anche pezzi singoli.
Ma questo è il domani e come fa in genere la politica, al domani ci si pensa appunto qualcun altro. Tornando dunque al passato ormai remoto, gli ultimi dati disponibili indicano che è in crescita la produzione dei rifiuti speciali, aumentata a circa 4,6 milioni di tonnellate su un totale di 143 (3,3%) . E’ su questa categoria che si concentra anche questa riflessione.
L’ EDILIZIA CAMPIONE DEI RIFIUTI (NON RICICLATI)
Tra questi tipo di rifiuti c’è da fare subito la distinzione tra i i rifiuti pericoli e quelli non-pericolosi. I rifiuti non-pericolosi ne rappresentano comunque il 93% del totale con oltre 4 milioni di tonnellate (+3,3%), mentre quelli pericolosi sono “solo” 376 mila tonnellate (+3,9%) per es. oli esausti.
Gli inerti derivati da smantellamento di edifici, strade, ecc sono il 65% del totale e c’è da chiedersi se dall’epoca del boom industriale basato sul cemento, oggi ci rendiamo conto di quanto questo settore è destinato ad aumentare. E come vedremo più avanti questi rifiuti li esportiamo anche in buona parte in Germania, che se prosegue il trend si fregherà le mani visto che molte opere pubbliche a partire dall’edilizia popolare e autostrade stanno mostrando le crepe dell’anzianità (Ponte Morandi a parte).
LA MANIFATTURA
Il settore manifatturiero, sopratutto quello meccanico ma anche tessile, arredamento, invidiato nel Mondo per qualità e professionalità, ne produce il 37,1% del totale mentre Il restante 33,7% viene dalle attività di trattamento rifiuti e di risanamento. Segue il settore dei servizi, del commercio e dei trasporti (19,8%) con quasi 2 milioni di tonnellate, di cui 1,4 milioni di tonnellate di veicoli fuori uso cioè il 70% è legato se non sinergico a quello manifatturiero. Il parco auto italiano è vetusto rispetto ai competitor europei ma non perchè a noi piace andare a piedi ma perchè le tasse e le infrastrutture non sempre agevolano il ricambio. E la pianura padana è tra le più inquinate di Europa non a caso.
Anche questo dato è particolarmente interessante perché si aggiunge al dato sulla produzione di rifiuti speciali per cui la maggior parte di questi proviene dal settore dal comparto metallurgico, da quello della fabbricazione di prodotti chimici e farmaceutici, della fabbricazione di coke (energia) e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio e della fabbricazione di prodotti in metalli. Quindi acciaio e petrolio, restano capisaldi dello sviluppo industriale e sopratutto del settore trasporti che, in un senso o nell’altro, sono la guida della nostra economia ma anche la nostra preoccupazione ambientale. Che la vocazione manifatturiera italiana sia quella meccanica ma che siamo privi di materia prima ce lo conferma anche il dato relativo alla importazione di rifiuti speciali “metallici” destinati alla rigenerazione: principalmente in impianti produttivi localizzati in Friuli Venezia Giulia e in Lombardia.
Al Nord Italia si producono quasi 84,9 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (59,2% del dato nazionale), dove è notoriamente concentrato il 70% della produzione manifatturiera italiana. La produzione del Centro si attesta a 25,1 milioni di tonnellate (17,5% del totale), mentre quella del Sud a 33,4 milioni di tonnellate (23,3%). Il Sud, ritenuto l’area più povera del Paese produce più rifiuti industriali delle regioni centrali: ha poche aree industriali come Taranto ma grandi aree urbane anche industrializzate come Napoli e Bari. Al Centro invece forse prevale la bellezza (arte, natura e quindi turismo che poi produce solo rifiuti urbani) a parte qualche distretto composto da piccole/medie imprese come il tessile a Prato o il Calzaturiero nelle Marche.
Tra le regioni del Centro, infatti maggiori valori di produzione di rifiuti speciali si riscontrano inbToscana con 9,8 milioni di T (38,9% della produzione dell’intera macroarea) e per il Lazio (9 milioni di tonnellate, 35,8%). Vale spendere una parola per la Toscana: tra i rifiuti speciali sono inclusi i ritagli tessili lanieri e gli abiti usati di cui Prato con il suo distretto tessile (più grande di Europa) è il più grande rigeneratore del Pianeta. Secondo le Comunità Europea sono considerati rifiuti speciali quei materiali che da oltre 120 anni sono invece trattati in una economia chiusa come il distretto, primo esempio di economia circolare integrata in un distretto industriale in Europa e probabilmente addirittura nel Mondo, ma che tutti noi abbiamo comprato e indossato come capi di Moda, ad alto valore aggiunto, a volte a spropositato valore aggiunto ma di grande efficacia proteggendoci soprattutto dal freddo ma oggi anche dal caldo con i nuovi tessuti active wear (tipo il pile per es.).Fa strano che la fibra di lana ma anche quella di cotone prodotta da un animale o da una pianta senza che glielo chiediamo, ad integrazione di un processo economico come l’allevamento o l’agricoltura, venga considerata dalla Comunità Europea un rifiuto, dal momento che è in grado di essere recuperata così come è, nel suo stato fisico di fibra, creando valore aggiunto, posti di lavoro e economia importante per un paese della stessa Comunità Europea. Ma forse ci sono mancati a suo tempo parlamentari europei che fossero europei per vocazione e non perchè trombati sul piano nazionale. Oggi non è più così ma la frittata è difficile rigirarla ora. La Toscana quindi paga le tasse di un sottoprodotto passato come un rifiuto – che è assai maggiore – e finisce nella classifica tra le Regioni che li producono maggiormente.
GLI IMPIANTI DI TRATTAMENTO DEI RIFIUTI NON RIGENERABILI
Proseguendo con la disanima del documento Ispra si legge che gli impianti di gestione dei rifiuti speciali operativi nel 2018 erano 10.813, di cui 6.232 situati al Nord, (pari al 57% del totale – quando produce il 59% dei rifiuti speciali) 1880 al Centro e 2.701 al Sud, che fa pensare che al Nord si trovano impianti più efficienti.
Gli impianti dedicati al recupero di materia sono 4.425, 41% del totale. La domanda è però se si potrebbero recuperare più materie prime tra quelli considerati oggi rifiuti speciali, ovvero se si è fatto abbastanza per farlo: per es. gli imballaggi, in particolare quelli plastici. Da varie ricerche emerge infatti più uno spreco ovvero un sottoutilizzo o un utilizzo parzialmente errato che porta a sprechi e quindi rifiuti speciali e costi che nel poco o molto si riflettono sul costo finale del prodotto o su un piano di minore resa economica della filiera. Ma sono oggi disponibili metodi scientifici per l’analisi e la correzione dello spreco nella filiera industriale, come il progetto Plastic Leak Project messo a punto dalla soc. svizzera di consulenza Quantis, sperando venga adottato anche dalle piccole imprese che complessivamente tendono a sprecare di più delle grandi.
RRR RECUPERO RICICLO RIGENERAZIONE
Il recupero di materia – rileva lo studio Ispra – è effettuato soprattutto in alcune regioni quali: Friuli Venezia Giulia dove si recupera il 78,5% (principalmente acciaio anche di provenienza estera), Trentino Alto Adige ( 77,8%), Campania ( 75,8%) e Lombardia nella quale si recupera il 74,5% del totale dei rifiuti gestiti nelle singole regioni.
Un dato che appare positivo è la flessione del circa il 5% dell’incenerimento dei rifiuti speciali. I rifiuti non pericolosi trasformati in energia o usati nei cementifici sono quasi 772 mila tonnellate (64,5% del totale); la restante parte è costituita da rifiuti pericolosi come quelli ospedalieri per es.
Lo smaltimento in discarica invece interessa circa il 7,8% del totale gestito, di cui circa 10,6 milioni di tonnellate di rifiuti non pericolosi e 1,3 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Rispetto al 2017, si registra una leggera flessione (-1,2%).
In questi 2 ultimi casi, se da un lato giungono notizie positive sul ruolo di una Italia virtuosa nella Comunità Europea – che in genere pensa più a bruciare valore economico nei termovalorizzatori che a recuperare (spreconi!) – , dall’altro sappiamo che non è abbastanza. Molti prodotti a partire dagli imballaggi sono studiati senza un criterio di attenzione all’ambiente e di recupero delle risorse ma è anche vero che negli ultimi anni l’Ecodesign cioè il modo di riprogettare i beni anche monouso secondo schemi di economia circolare, sta acquisendo consenso nella manifattura Italiana, seppure con molta difficoltà; tra cui quella del recupero di forze finanziarie, coscienti che il sistema bancario italiano aiuta solo chi i soldi li ha già ovvero quando garantisce un flusso di cassa importante per singola azienda o gruppo mentre sappiamo bene che il nostro comparto manifatturiero è sì, flessibile perchè lotta quotidianamente per la sopravvivenza ma usa fantasia e competenza per sopperire al cronico buco di bilancio dello Stato che significa tasse e per le banche solo prestiti garantiti. Il post covid poi speriamo non faccia il resto. Contiamo negli italiani brava gente.
ESPORTAZIONE DI RIFIUTI
L’Italia è comunque anche un esportatore di rifiuti industriali oltreché di quelli urbani; questi ultimi più noti alle cronache dei media con i lunghi treni o la navi che per es. dalla terra dei fuochi, ma non solo, portano fino all’estremo nord Europeo i rifiuti accumulati negli anni di mala gestione, se non gestione criminale per essere gasati: paghi per smaltire e loro ci ricavano energia che vendono. Ma nel lungo termine bruciare non è proprio una gran furbata soprattutto se Paesi come l’Italia continueranno a sviluppare la strategia del riciclo e rigenerazione selettiva, efficiente e compartecipata anche dall’industria oltreché dal cittadino. E con la Cina che ha fermato l’arrivo in madre patria dei rifiuti speciali come per es. le plastiche delle bottiglie e i pneumatici esausti ma soprattutto dei rae (elettronica), la rigenerazione e sopratutto l’efficentamento del fine vita, sarà la carta vincente. Oppure lo faranno gli incendi illegali. L’Italia in questo, cronicamente bisognosa di materia prima, sarà un Paese di riferimento.
La quantità totale di rifiuti “speciali” esportata nel 2018 è pari a circa 3,5 milioni di tonnellate (2,4% della produzione totale). I maggiori quantitativi sono destinati alla Germania (957 mila tonnellate) e sono prevalentemente rifiuti pericolosi (658 mila tonnellate) prodotti dalle attività di costruzione e demolizione (oltre 324 mila tonnellate). Dato anche questo che fa pensare molto e che rimanda all’attività estrattiva in Italia per la produzione di cemento dei decenni scorsi, che ha sconvolto paesaggi interi poi riempiti di immondizia, che era un tempo grande fonte di guadagni ma oggi lo è meno e lo si nota dagli scheletri dei cementifici abbandonati, sparsi in tutta la Penisola.
Marco Benedetti
m.benedetticonsulting@gmail.com