Nasce lo status di rifugiato ambientale: il Comitato ONU per i diritti umani riconosce le conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici

Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella decisione Teitiota c. Nuova Zelanda del 7 gennaio 2020, ha affermato che non è possibile rimpatriare persone nei luoghi ove il cambiamento climatico abbia provocato condizioni tali da violare il diritto alla vita. Per la prima volta si ammette che gli effetti del cambiamento climatico possano violare il diritto alla vita e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e si fonda il divieto di respingimento da parte degli Stati Terzi.

Il caso in questione riguarda il Sig. Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati, cui la Nuova Zelanda aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e aveva imposto il rimpatrio nel Paese d’origine. La Repubblica di Kiribati è un atollo dell’Oceano Pacifico che ha subito gli effetti devastanti dell’innalzamento del livello del mare ed è, infatti, sottoposta a regolari inondazioni che distruggono abitazioni e raccolti provocando una graduale erosione costiera.

Nonostante non si sia impedito il rimpatrio del Sig. Teitiota, la decisione ha posto dei principi essenziali.

Il Comitato ONU ammette, infatti, che i danni provocati dai cambiamenti climatici possono verificarsi sia a seguito di eventi improvvisi come calamità naturali, sia in conseguenza a processi di lenta insorgenza come l’innalzamento del livello del mare. I suddetti danni possono indurre movimenti di persone che cercano protezione in Paesi in cui il cambiamento climatico ha avuto minori conseguenze.

In ultimo, la decisione in questione riconosce un collegamento tra disastri naturali dovuti ai cambiamenti climatici e l’obbligo in capo agli Stati di rispettare i diritti umani e, in particolare, il diritto alla vita e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Uno Stato, infatti, può essere considerato responsabile della violazione di un diritto umano pur non avendo posto in essere alcuna condotta diretta alla violazione dei diritti. La sua responsabilità deriverebbe dal non avere posto in essere le misure necessarie per affrontare degradazione ambientale e cambiamento climatico o dal non avere adottato misure emergenziali volte ad attenuare gli effetti di una calamità naturale con una conseguente carenza di tutela delle persone sottoposte alla sua giurisdizione.

Purtroppo, sempre più di frequente assistiamo alla disastrosa portata degli effetti dei cambiamenti climatici, basti pensare a quanto successo recentemente in Australia o in Bangladesh. Pertanto, la decisione del Comitato ONU per i diritti umani, pur non essendo vincolante, avrà sicuramente importanti ricadute sul diritto internazionale e sulle pronunce dei Tribunali italiani che si vedranno costretti a fronteggiare un nuovo tipo di immigrazione dovuto a problemi causati dall’umanità stessa.

Giulia Roggiolani 

Per approfondire: Comunicato stampa del Comitato – Testo della sentenza

Fonti: questionegiustizia.it – Asgi – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione

Immagine articolo: www.womensmovement.com

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