Fracking, nuova cortina di ferro per l’Europa


“Questo è il film che non volevano farvi vedere!
”. È questa la frase con cui è stato lanciato Promised Land, la discussa opera con Matt Damon protagonista che racconta il fenomeno statunitense dello shale e i mali del fracking. Una vicenda, quella dell’estrazione di petrolio e soprattutto gas non convenzionale, che ora spacca anche l’Europa tra chi questa tecnica vorrebbe proprio vederla e chi no.


Una separazione sempre più netta all’interno del Vecchio Continente, al punto da ricordare concettualmente le due aree geografiche separate in tempi di guerra fredda dalla cortina di ferro e oggi ridivise su un singolo tema, ma con le medesime aree di influenza, seppur a parti inverse: la Russia, profondamente contraria alla valorizzazione di questa risorsa nell’est Europa per ragioni di concorrenza interna; gli USA, che sul fracking e sullo shale hanno costruito la rinascita del sogno americano (basato su un manifatturiero spinto dai bassi costi dell’energia) e oggi potenziale rivale nelle forniture di gas verso l’UE se si concretizzasse la spinta autorizzativa alle esportazioni.

Quali, dunque, i fronti opposti a questa nuova ‘cortina di ferro’? Da un lato l’Europa occidentale, certamente e giustamente arroccata su posizioni ambientaliste, che ha visto molti Stati porsi in posizione contraria a questa tecnica estrattiva; con in testa la Francia, non a caso il polmone nucleare d’Europa (ed esportatore di energia elettrica) e prima promotrice di una maggiore politica unitaria sull’energia all’interno dell’UE.

A unirsi alla Francia, formando dunque un ‘blocco centrista’, la Germania, che attraverso le parole del ministro per l’Ambiente Peter Altmaier, si è detta intenzionata a “rendere la vita difficile” alle compagnie che volessero avviare attività di hydraulic fracturing nel paese, annunciando norme più stringenti (ma dovendo comunque risolvere questioni di giurisdizione e competenze interna, sulla falsa riga del problema italiano del Titolo V in tema di energia), in un territorio che comunque aveva già avviato piccole esperienze in questo senso in passato.

Di diverso avviso e sul fronte decisamente opposto paesi come la Polonia, l’Ucraina, la Romania e anche la Gran Bretagna. Quest’ultima, ad esempio, pur mantenendosi in un’area politica di stampo ambientalista, nel finire del 2012 ha autorizzato la proliferazione delle estrazioni di gas da scisto nel Lancashir.

In Romania, invece, dove esiste un nutrito fronte no-frack, il primo ministro Ponta ha espresso sostegno all’estrazione di shale gas, annunciato l’autorizzazione governativa a nuove esplorazioni nell’area di Bihor.

La maggior parte degli Stati nell’Est Europa vedono nello shale gas innanzitutto la possibilità di affrancarsi dalla forte dipendenza dalle importazioni russe, assicurandosi una maggiore sicurezza energetica interna. È il caso, ad esempio, dell’Ucraina, storicamente in disaccordo con la strategia di Mosca e recentemente ritornata allo scontro a causa della mancata riscossione dei volumi prefissati di import del gas russo, opponendosi alle clausole dei take or pay.

In questo scenario esistono anche paesi attendisti, come la Bulgaria, che attraverso il proprio ministro dell’Energia Delyan Dobrev ha confermato di voler “aspettare anni” affinché si possano sciogliere i dubbi sulla sicurezza di questa tecnica estrattiva.

Sul piano generale, infine, pesa nei Paesi membri la decisione della Commissione di aprire (fino a marzo 2013) una consultazione pubblica per vagliare rischi e opportunità dei giacimenti non convenzionali.

È l’Italia? il nostro Paese ha avuto modo di non porsi realmente la questione unconventional gas perché, fin dai prodromi della discussione internazionale, la principale convinzione diffusa è che le risorse presenti sul nostro territorio delle varie forme di gas non convenzionale estraibile (shale, tight, CBM) siano assolutamente scarse. Ciò è probabilmente vero, al pari del fatto che qualche attività di ricerca e sondaggio sia stata fatta. In realtà, l’Italia deve più concretamente confrontarsi con l’opportunità di valorizzare o no le risorse nazionali di idrocarburi, prima di potersi porre realisticamente un quesito su quelle non convenzionali. Allo stesso tempo, buona parte della comunità scientifica ricorda che nel nostro Paese sono presenti eccellenze nel campo delle scienze del sottosuolo, al punto da poter aspirare a diventare una scuola di riferimento in Europa per lo studio, la ricerca e l’estrazione dello shale gas, con competenze da esportare in tutto il mondo insieme alle opportunità tecnologiche e industriali derivanti.

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